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Roma Incontra il Mondo – Laghetto di Villa Ada, 1 Luglio 2011

Alessandra Giordani intervista Nabil Salameh dei RADIODERVISH

Incontriamo i Radiodervish subito dopo il concerto svolto all’interno della manifestazione “Roma incontra il mondo 2011”, appuntamento di inizio estate ormai tradizionale da anni a cui il pubblico anche questa volta non fa mancare il proprio numeroso e caloroso sostegno. Approfittiamo della cortesia e della disponibilità di Nabil Salameh per un'intervista sull'evento che travalica il momento e continua un percorso di "celebrazione" e "testimonianza" che tendono alla "chiusura del Cerchio" fatto attraverso la musica.

Anche questa sera Roma ha potuto respirare atmosfere “altre”, cullato dalla vostra musica suggestiva e ricca di emozioni. I Radiodervish da un anno a questa parte, quindi dal nostro ultimo incontro qui a Villa Ada (presentazione in anteprima del disco “Bandervish”, ndr), hanno vissuto forti esperienze di gruppo e importanti avventure come solisti. Iniziamo dal vostro concerto del maggio scorso a Il Cairo: cosa ha lasciato in voi quel contesto in un momento così denso di avvenimenti e di trasformazioni?

Nabil: Quel concerto è stata un’esperienza molto forte perché noi abbiamo sempre rivolto un’attenzione molto particolare alle dinamiche che riguardano il Medio Oriente, anche perché lì ritroviamo i nostri esordi, lì siamo “nati”, principalmente perché fin dall’inizio siamo stati un gruppo che faceva solidarietà rispetto ad una causa molto complessa e spesso mal raccontata, quindi il nostro primo intento era quello di raccontare attraverso delle narrazioni musicali delle esperienze, degli episodi propri di quei luoghi, anche attingendo a quel mondo letterario che spesso viene appiattito su dei modelli stereotipati e fondati sul sensazionalismo e sulla cattiva informazione. Per noi ritrovare quei posti ha avuto il significato di una chiusura del cerchio, ossia di ritornare e verificare il miracolo di quanto era accaduto e stava accadendo, perché fino all’anno scorso, possiamo dire, nessuno credeva che in Tunisia o in Egitto potessero sorgere con tanta forza dei movimenti che potessero scacciare quei regimi presenti da anni. La nostra è stata dunque una testimonianza di quello che abbiamo vissuto, un racconto da raccogliere ed un’esperienza da vivere, per cui Il Cairo ha rappresentato il luogo ideale per questa chiusura del cerchio, aperto ormai nel lontano 1988 con gli Al Darawish (precedente formazione musicale del duo Salameh-Lobaccaro, ndr), poiché solo oggi possiamo davvero dire che gli equilibri e i contesti sono radicalmente diversi, visto che non si era ancora compiuto il passo per cui quel mondo che è stato preso in ostaggio per lungo tempo, dopo una prima “primavera” di qualche tempo fa che ha solo promesso cambiamenti, adesso ha rotto con questa seconda  rivoluzione quello strano incanto di situazioni negative per popolazioni e paesi: quindi il nostro è stato un andare a vivere e verificare quella festa, quel Rinascimento mediterraneo, perché paradossalmente è lì che rinasce il Mediterraneo, che oggi ha molto da insegnare anche alla nostra Italia, che pur versando in una diversa situazione, forse rivela la stessa immobilità, anche se per fortuna nell’ultimo periodo già qualcosa sta succedendo. Diciamo che quindi il nostro viaggio è stato un andare a celebrare il momento, e abbiamo avuto anche il regalo di poterlo fare in un luogo simbolo della musica, una specie di tempio dell’arte quale è il teatro Cairo Opera House. Per cui direi che Chiusura del cerchio, Celebrazione e Testimonianza sono i tre termini con cui definirei il cuore della nostra esperienza dello scorso maggio. La speranza concreta ad oggi è che ci siano anche delle prospettive per far sì che questo non sia stato un episodio isolato, anche se per ora non possiamo ancora rivelare nulla di preciso.

Nel disco “Un’ala di riserva” di Michele Lobaccaro, che ha messo in musica in una messa laica dei testi del Vescovo di Molfetta Don Tonino Bello, scomparso nel 1993, interpreti, oltre al brano omonimo, anche l’“Agnus Dei” insieme a Franco Battiato con il quale, oltre ad altri artisti, ti abbiamo ritrovato pochi giorni fa in concerto all’Auditorium di Roma per ascoltare il risultato nato dal progetto DIWAN, dove Oriente ed Occidente di nuovo si abbracciano. Cosa ti ha regalato e cosa ti ha emozionato di questa esperienza che speriamo possa andare avanti?

Nabil: Beh, certamente ci sono buone possibilità che possa andare avanti e anche questa esperienza potremmo definirla figlia di un altro tentativo, perché spesso si teorizza la purezza delle culture in generale, in questo caso abbiamo affrontato quella cristiana, come se fossero mondi impenetrabili e tra loro isolati, mentre spesso i vari capitoli sono totalmente compenetrati. Prendiamo l’Islam e la cultura araba, riscoperti in DIWAN, che per trecento anni hanno influenzato e dominato la Sicilia con un fiorire di arte, tanto che non è possibile non rintracciare interferenze tra il sapere che la cultura greca, l’illuminismo europeo e cristiano e la tradizione araba hanno lasciato a noi oggi come se ci fosse stata una continua staffetta, un’eredità complessiva che non è possibile non considerare nel suo affascinante complesso, come una spirale che non può essere sezionata. Ecco, questo è un po’ il cuore di questo stimolante progetto, che mi ha coinvolto a pieno, e che si caratterizza come un promemoria, un invito a riscoprire e a conoscere quale sono le radici della cultura araba italiana, perché in Sicilia quei trecento anni di arte e poesia sono stati dei capitoli fantastici, ma forse ignoti agli italiani. La cosa bella è che gli intellettuali di quella società si ritenevano parte di quel fazzoletto di terra, che poi si è chiamato Italia, mentre prima era denominato altrimenti, per cui questo spettacolo è un invito alla riscoperta di questa reale eredità, per sottolineare quelle radici e allo stesso tempo lanciare una speranza per un modo di vivere l’integrazione delle culture, magari in un contesto oggi più consapevole, in uno stato di grazia come quello che è stato possibile per ben trecento anni in Sicilia, dove verificare l’esistenza di un’antologia di poeti definiti senza alcuna forzatura arabo-siciliani. Se è stato reale allora, non possiamo crederlo impossibile oggi.

Passiamo invece ad “Esperanto. Note di speranza”, un’iniziativa in musica promossa proprio da te in prima persona per la raccolta di fondi a favore di scuole di canto in Palestina, che ha avuto un grosso successo nel concerto-spettacolo a Lecce. L’arte come veicolo di comunione e di conciliazione per superare attraverso le esperienze comuni barriere artificiali e dannose: è questo il cuore del progetto? Come sta andando e perché non proseguire in altre città?

Nabil: In realtà quando ho cominciato a delineare questo percorso e al momento della sua presentazione, nelle mie aspettative “Esperanto” aveva come caratteristica principale quella di essere un progetto itinerante e reiterato, quindi possiamo dire di essere solo alle prime battute, per cui magari a breve potrebbe esserci una puntata, perché no, anche a Roma. A mio avviso si tratta di un qualcosa di molto importante e complesso in cui credo molto e sto investendo molti dei miei sforzi. Questo  perché quando la condizione umana degenera è la cultura che deve essere tirata in ballo, rappresentare un toccasana, anche e soprattutto in quel contesto in cui la situazione reale è veramente “incancrenita” e il piano dei rapporti umani è interamente minato, a prescindere dalle appartenenze. L’unica luce che può quindi indicare la direzione e la fine del tunnel è la cultura, laddove ci si può incontrare solo su questo piano, per restaurare quel territorio dove gli uomini possano anche solo raccontarsi, per conoscersi e condividere, momento che viene dopo la riscoperta delle radici comuni che hanno cultura ebraica, islamica e cristiana e che in quel punto magico che è Gerusalemme convivono, purtroppo però non ancora nel modo giusto. È sul piano culturale che dobbiamo quindi trovare una tessitura, una formula nuova dalla quale poter partire e costruire un nuovo modo di rapportarsi e soprattutto fondare una “memoria della riconciliazione”, senza cui il processo di positiva convivenza rimane orfano di certezze, che possono esser date solo dal ricordo della conciliazione. Questo lo si può sperimentare sia a livello di microcosmo, quando tra due persone si  tira tutto fuori e si chiarisce un contrasto per poi ricominciare un cammino nuovo, ma anche a livello di macrocosmo, tra due o più popoli con le loro identità. Il processo di riconciliazione è difficile ma non è impossibile, poiché io credo che le identità non siano un qualcosa di statico, ma si possano riscoprire, reinventare, rinarrare. Quindi il mio augurio è che tra palestinesi ed israeliani si possa arrivare alla creazione di uno stato unico chiamato in un modo qualsiasi, ma che tenga in primo piano la salvaguardia della condizione umana, perché ad oggi si è imbruttita talmente tanto la vita delle persone che vivono lì, che questo sforzo si rende urgente e necessario. Quindi tocca agli uomini della cultura creare questo spazio, all’inizio magari piccolo. Io ho questa speranza, non ci sono formule scientifiche da applicare, ma mi batto insieme a chi la pensa come me. Possiamo dire che tutto quel che ho, che posso fare e che faccio è cercare di coinvolgere gli altri sempre di più, perché sono convinto che non possa andare avanti così per sempre. Speriamo che la carovana diventi sempre più grande.

Al momento, come sempre, vi stanno seguendo in molti, quindi vi facciamo i migliori auguri. Ora quali programmi per i Radiodervish?

Nabil: Beh, da subito iniziano i lavori per il nuovo disco, che potreste ascoltare già dall’anno prossimo.

Finiamo quindi con una buona notizia per tutti i vostri ascoltatori questa nostra intervista, grazie ancora per la serata ricca di suggestioni e buon lavoro.

Alessandra Giordani