Valerio Berruti "Primary"
a cura di Vittoria Coen
"All the things that are…… are musical" (Richard
Crashaw).
Decisamente
avverso al tema della violenza e della depravazione disperata, che tanto
spazio occupa nei toni correnti di molte espressioni dell’arte contemporanea,
l’arte di Valerio Berruti sceglie i "bambini". Non c’è, però, in questa
scelta, il roseo profumo di vecchie cartoline augurali, non c’è l’opprimente
ridondanza decorativa, non ci sono gli sguardi compiaciuti e le premonizioni
di grandi destini di un futuro da campioni.
I bambini di Berruti sono naturalmente reali, dolcemente
quasi disarmati, da soli o accompagnati da una presenza adulta, perché la
famiglia c’è.
Sono un’ipotesi di un passato che potrebbe essere anche
il nostro passato, momenti di un’infanzia dimenticata per forza di cose,
che qualche volta riaffiora da una vecchia fotografia e ci dà un po’ di
stupore: eravamo proprio così? E dov’è finita quella maglietta che amavamo
tanto?
Non c’è niente di banalmente convenzionale nelle forme
semplicissime, anonime, non ci sono protagonismi. Così vere e semplici,
le figurette si direbbero lineari prototipi di un’umanità che dovrà crescere,
che farà cose, che ha in sé potenziali segreti di armonia, che è dentro
le cose, anche in quelle che non si vedono. Nella serie dei santi bambini
c’era un’intenzione laicamente affettuosa. Radicare nell’infanzia le storie
era, accanto alla scherzosa pseudo-identificazione, un modo efficace di
avvicinare immagini della memoria e della tradizione ad un umano costantemente
presente. Era un modo di umanizzare l’iconografia sacra e la leggenda avvicinandole
al tessuto di cui è fatto da sempre il nostro vivere. Non c’era, non c’è
mai stata, io credo, nelle intenzioni di Berruti, nessuna ideologizzazione
dell’infanzia, alla quale qualche artista ha voluto dare un’impronta, una
veste primitiva, immaginando che un popolare arcaico esprima meglio il mistero.
Strutture elementari, identificazione negata anche quando
il titolo è chiaramente allusivo: ogni referente è immanente nel soggetto
fisico, l’immagine è autosufficiente, non ha bisogno di rimandi e di traslazioni
per comunicare ciò che l’artista vuole esprimere, oggi per Berruti, decenni
fa per Andy Warhol. E allora qual è il senso di un’operazione che ha allineato
figurette sorelle, tanto simili fra loro da essere quasi indistinguibili,
tipi piuttosto che individui? Quanto più ridotto è il principio d’individuazione
tanto maggiore è la possibilità di riconoscersi nel bambino, nel ragazzo,
nella madre, nel "figlio prediletto" (tutti i figli sono prediletti?).
Il tratto così deliberatamente schematico allude ad una
diversa concezione della categoria dell’essere, e la tecnica dell’affresco
risulta funzionale, insieme con i colori delicati, alla trasmissione di
una particolare situazione di sospensione.
Anche se si assomigliano i cuccioli di Berruti sono realtà
in movimento, sono forniti di un prima e di un dopo. Sono fissate, queste
realtà, nell’opera dell’artista, perché ci si ricordi che nella loro cosiddetta
normalità ci sono universi possibili, come era già dalla nascita, nel nostro
compagno di banco malgrado l’uniformità dell’abbigliamento, dal fiocco,
dalla pettinatura, da quell’indefinibile non so che, segnale insostituibile
che ci consegna tutti alle nostre storie. Come l’artista sottolinea queste
immagini richiamano al frammento, al fotogramma singolo, che in un attimo
congela un gesto, un sorriso, "risa bloccate". Berruti parla di "composizione
musicale", di "pentagrammi" sui quali i piedini dei bambini si appoggiano
metaforicamente.
E non c’è alcun formalismo in queste forme, ma una promettente
implicazione di armonia.
Ora Berruti ci confida la sua volontà di far rivivere
"le atmosfere innovative" create dal Gruppo Fluxus in anni di grande
fervore artistico. Dare forza all’antica aspirazione della sintesi delle
arti, coltivata sin dal Rinascimento e cercata e proclamata con vigore dalle
avanguardie del Novecento, è stata infatti proprio l’aspirazione degli artisti
che negli Anni Sessanta hanno dato vita al movimento opportunamente chiamato,
appunto, Fluxus. Fluire e confluire, scorrere e incontrarsi in sintesi
mobili e provvisorie, era piaciuto anche ai futuristi, ai dadaisti. Erano
spinte rivoluzionarie, alternative, spavaldamente provocatorie.
Muoversi su tanti piani, nella sintesi delle arti; non
c’erano globalizzazione né omologazione, ma incontri di una creatività che
poteva rinnovare continuamente strumenti e produrre novità aggiungendo un
rilievo nuovo al gesto e all’acquisizione della quotidianità nel suo farsi,
senza preclusioni, senza pregiudizi.
E’ dunque un atteggiamento concettuale quello che restituisce
all’oggetto artistico un valore autonomo, indipendente dai materiali e dalle
tecniche. Qui, nelle tele di Berruti, l’oggetto artistico è leggibile, tangibile,
commentabile. Ma non è un documento immobile.
La sintesi di suono e segno non è la cancellazione delle
componenti, ma il dipanarsi di un potenziale ordine formale interno alle
cose, una ricerca attenta e amorosa d’armonia.
Mantenendo fermamente al suo posto il soggetto, i bambini,
proponendolo nella sua forma consueta e ben nota, lo si libera dagli eccessi
di concretezza che nell’insistenza dei dettagli appesantirebbe e, proprio
per questo motivo, creerebbe una non certo desiderata assenza di significato.
Il presente quotidiano della divisa scolastica dei bambini
di Berruti, così prosaica in sé, sconfigge ogni tentazione di lettura asettica,
paradossalmente. Propone invece un ritmo vitale, una melodia che si inventa
nei possibili movimenti di queste sagome infantili. Una melodia latente
che non verrà mai scritta sulla carta, ma che si ascolta con la memoria
dei suoni che ognuno di noi potrebbe aver conservato dal suo passato.
Primary offre una presenza non ostentata, non esorbitante.
Quel tanto di fisicità che vi si legge si smaterializza, scivola via verso
toni immaginati che si muovono in una libertà senza confini, e tutto è evento.
Le forme suggeriscono movimento e suoni, sviluppando delicatamente i segni
del loro dinamismo interno su inedite e private lunghezze d’onda.
Così mentre noi guardiamo i bambini, guardiamo dentro
noi stessi e torniamo indietro nel tempo.
Fonte: Ufficio stampa
Threesixty