DUE GIORNI AL NIVOLET
di
Elisa Cerrato
Alzo gli occhi verso il grande orologio della stazione Porta
Nuova. Sono le 17 di un afoso sabato pomeriggio, quando la voce meccanica
dell’altoparlante annuncia l’arrivo del treno proveniente da Roma. Dentro
di me prevalgono sentimenti contrastanti, la curiosità si mescola all’incertezza,
l’emozione ad un'apparente tranquillità. Me ne rendo conto dal fatto di
non riuscire a tenere sotto controllo i battiti del mio cuore, mentre il
mio sorriso manifesta la più serena cordialità. Mi dirigo verso il binario,
cercando negli sguardi delle persone che mi vengono incontro la complicità
di quello dei miei ospiti: due giornalisti della testata “Correre nel Verde”
venuti a Torino per essere accompagnati in una “folle” avventura alla scoperta
del Colle del Nivolet, uno dei luoghi più suggestivi del Parco Nazionale
del Gran Paradiso.
Di costituzione minuta, ma con le spalle e le gambe robuste
di chi ama praticare sport, con i capelli rossicci che incorniciano un viso
candido e pulito, così mi appare una ragazza in cui, dalle descrizioni
anticipate al telefono, riconosco Alessandra. La profondità dei suoi occhi
verdi mi rasserenano, bastano poche parole per capire che in lei ho trovato
un’ottima compagna. Mi presenta il suo direttore, Giorgio, che con un fare
allegro, abituale della gente della capitale, mi stringe la mano e mi esorta
a continuare il viaggio per poter raggiungere il più presto possibile la
meta sognata. La stanchezza sembra scomparire e nascondersi dietro sorrisi
di entusiasmo e voglia di scoprire tutto ciò che di inconsueto e di sorprendente
può regalare il tempo da trascorrere insieme.
Pronti... via! Si parte. Alessandra mi confida di non conoscere
Torino, ma di averla sfiorata solo appena, sempre di fretta, tra uno
spostamento e l’altro.
Cerco allora di percorrere un tragitto che, per quanto veloce,
possa rapire la mente e il cuore degli amici appena conosciuti. Non c’è
niente di più bello, soprattutto per chi ama la propria città come me, di
presentarla a degli estranei e renderla ai loro occhi come la città dei
sogni. Torino appare nella sua regale eleganza, presentando i suoi palazzi
storici, antiche residenze dei Savoia, le sue piazze perfettamente
squadrate e incorniciate da portici che fanno rivivere l’atmosfera settecentesca….
La vista dei suoi scorci rimane rapita da una sobrietà di linee e forme
che, lontano da eleggerla a città austera, ne confermano il carattere aristocratico.
Un aspetto che poi ama confondere con la sua apertura culturale ed etnica,
tipica della zona del “quadrilatero romano”, che prometto di mostrare al
nostro rientro.
Da piazza Castello, a piazza Vittorio, lungo il parco del
Valentino…ci lasciamo alle spalle la città per dirigersi verso orizzonti
silenziosi e incontaminati.
Man mano che saliamo abbandoniamo l’afa della città, le strade
si fanno strette e tortuose, il verde degli alberi, nella maggior parte
pini e aceri, si impone a nostri occhi e il silenzio del paesaggio contrasto
con l’eco delle nostre parole.
In lontananza intravedo il lago di Ceresole Reale… sul quale
si affaccia il rifugio che ci ospita per la notte, il “Massimo Mila”, costruito
intorno agli anni 60, in onore del famoso musicologo ed escursionista
Massimo Mila.
Siamo arrivati alla prima tappa del nostro strano e inconsueto
viaggio… .
Scesi dalla macchina, una salutare brezza è pronta
ad accoglierci e a darci il benvenuto in questa vallata. Mi copro le spalle
nude con un maglione, il gesto è dolce, come a ringraziare il clima montano
che fa dimenticare di essere nel bel mezzo della canicola estiva.
Di fronte ai nostri occhi si presenta il Rifugio, una struttura moderna
con i confort di un albergo che conserva di tradizionale i tavoli in legno,
il soffitto in pietra e un’antica stufa in rame al centro della sala. Basta
solo questo semplice oggetto a far viaggiare la mente ed accendere immagini
di un tempo lontano, che richiamano alla memoria abitudini antiche, come
il riscaldarsi intorno ad una stufa e assaporare il piacere della comunione.
Quello che tra l’altro percepisco dai miei nuovi amici; il viaggio
è servito ad armonizzare i nostri spiriti, a far cadere ogni barriera, a
comprendere i desideri altrui. Un solo obbiettivo comune: godere fino infondo
la bellezza nel trascorrere due giorni a contatto con la natura.
Affamati, nonostante le fatiche di un viaggio interminabile,
ci dirigiamo subito verso la cucina per gustare un tipico pasto di montagna.
Nonostante ci conoscessimo solo da poche ore, basta un semplice sguardo
per afferrare la gioia che provoca l’assaggio di una fetta di lardo accompagnato
da pane casereccio, appena sfornato. Ancora un assaggio ai tomini al verde,
tipico piatto delle nostre parti, e alle melanzane grigliate per terminare
gli antipasti e lasciare il posto ad un saporosissimo piatto di polenta
ai formaggi. Alzo la mano verso Giorgio che mi versa un bicchiere di vino
rosso.
Un attimo di pausa, la mia mente si libera e, sotto l’impulso
dei gusti prelibati appena assaggiati, comincio ad assaporare la giornata
di domani.
La cena trascorre piacevolmente, parole e improvvise risate
si alternano con i piaceri di una “buona tavola”.
E’ notte, completamente buio, quando ci accingiamo
ad andare verso le nostre camere da letto, ma l’oscurità del lago di fronte
ci rapisce e incuriosisce il nostro passo giù di là. Camminiamo per una
buona oretta, e man mano i nostri occhi si abituano a guardare intorno e
a scoprire quello che gli occhi del cuore godevano già da un pezzo.
Di fronte a noi un ruscello che va a terminare nel lago;
la sua discesa è ripida, il suo canto è pura emozione. Alla domanda di Giorgio
“Cosa stai provando?”, le parole si bloccano e lasciano il posto all’immaginazione
che tengo celata dentro di me. Penso in quel preciso istante alle note di
una melodia di Chopin, ai versi di un racconto di Cesare Pavese, alle
preoccupazioni che si allontanano come se l’acqua riuscisse a portarle via
con sé, al nascere di nuove amicizie.
La camminata si fa più veloce, mentre rallentano le chiacchiere
fatte durante tutta la serata. Raggiungiamo il nostro appartamento e con
l’augurio di una buona notte ci diamo l’appuntamento a domani.
Sono le 7.30 del mattino quando suona la sveglia e i miei
occhi a fatica riescono a intravedere un leggero filo di luce che si fa
strada dalle serrande della finastra, come ad augurare una buona giornata.
Mi accorgo dai brusii che arrivano da lontano attraverso le finestre che
è ora di alzarsi, svegliare i miei compagni e accingerci a compiere la nostra
avventura.
Destinazione: Colle del Nivolet a 2600 mt di altezza, situato
a metà strada tra il versante valdostano e piemontese del Parco Nazionale
del Gran Paradiso.
Prima di partire, scorgo Alessandra mettere in tasca i rimasugli
di una veloce colazione: del buon pane fragrante con una confezione di marmellata
alla fragola e una di nutella. Cibi energetici che non possono mancare tra
le “attrezzature” di un buon escursionista, pronto ad affrontare la salita.
Lo scatto di una fotografia immortala il mio volto insieme
a quello della mia coetanea, incorniciato da un cielo color turchino dal
quale la vetta di una montagna di quella zona sembra essere sospesa….
Prendiamo la macchina che ci conduce fino al Serrù, località
dopo la quale la strada si inerpica sempre più tra le rocce. Qui è pronta
una navetta ad aspettare noi e i turisti diretti al Colle, prevista per
tutte le domeniche estive, al fine di migliorare l’accesso a quest’area
e tutelarla da un punto di vista ambientalista. Sono 6 km di strada…ma appaiono
una dolce eternità…. La stretta strada asfaltata contrasta con il verde
che abbraccia tutta la vallata. Un tornante, una svolta, ancora un tornate…man
mano il respiro rallenta e lascia il passo alla pura contemplazione. Lo
sguardo va avanti e intravede tra le conche formate dalle rocce diversi
laghetti verde smeraldo che si nascondono qua e là, come a voler far impazzire
i nostri occhi nel cercarli. Il mio corpo si ritorce, si piega su stesso,
per godere fino in fondo questo panorama mozzafiato.
A metà strada incontriamo un laghetto artificiale, l’Agnel,
di un azzurro glaciale sul quale irrompe una cascata della quale si immagina
il rumore dell’acqua che corre impetuosamente a valle.
Le parole delle persone salite con noi diventano lontani
sussurri di stupore, e la mia mente si lascia cullare dalle piacevoli sensazioni
regalate. La navetta sorpassa ancora un tornante, siamo nel punto più alto,
dove mi è sembrato per qualche istante poter toccare il cielo e qualche
nuvola sparsa qua e là. L’autista annuncia la fine della salita. Un ultimo
sguardo in fondo alla valle per fissarla nella memoria. Siamo al Colle del
Nivolet, 2616 mt. Pochi metri di discesa ed ecco aprirsi di fronte a noi,
l’altopiano omonimo. La montagna scalata ci circonda come ad abbracciarci
e a darci il benvenuto e improvvisamente la vista si fa lontana perdendosi
all’orizzonte, dove intravedo solo ombre che si mescolano con il cielo blu.
Inevitabilmente, con l’immaginazione, mi sembra di intravedere il mare.
I miei compagni di avventura mi esortano a procedere nel
viaggio alla scoperta dei dintorni… purtroppo abbiamo poco tempo a disposizione.
Solo due ore ci sono concesse qua sopra, prima del rientro in città.
Dietro al Rifugio Savoia, un ex palazzina di caccia dei Savoia,
proprio sul pianoro del Nivolet, di fronte ad uno dei suoi tanti laghi,
si snodano innumerevoli sentieri sui quali si scorgono di tanto in tanto
persone che, cariche dei loro zaini sulle spalle, contemplano la tranquillità
del paesaggio. Decidiamo di percorrerne uno, quello che ai miei occhi, e
soprattutto alle mie gambe minute, appare il più ripido. Mi fermo per riprendere
fiato e per far riposare i miei muscoli indolenziti. Da lì sopra il lago,
appena lasciato alle nostre spalle, si manifesta nella sua tranquillità
e trasparenza; la vallata che si apre di fronte a me è pianeggiante, con
prati verdi ricchi di fiori minuscoli alcuni galli, altri bianchi,
e altri ancora viola che si dispongono in mucchietti colorati, come le strisce
di un arcobaleno. Le cime sono innevate, i torrentelli sembrano nascondersi
tra le rocce e lievi pendii si inseguono uno con l’altro. Mi avvicino all’acqua
e la sfioro con una mano, mentre pian piano toccandomi il collo, faccio
scivolare la sua freschezza sul mio corpo bollente dal sole rovente. Improvvisamente
sento un urlo uscire dalla gola di Alessandra. Non è riuscita a trattenere
l’emozione nel vedere una marmotta apparsa improvvisamente davanti a noi.
Il suo grido di gioia è seguito dal mio: l’animale corre verso la sua tana
spaventato forse per i suoi piccoli. In lontananza vediamo altre tane, sono
tantissime, e ancora, proprio a pochi metri, un’altra marmotta ritta sulle
zampe per difende il suo territorio. Lo stesso stupore, provato qualche
minuto prima, riaffiora, questa volta, in un timido sorriso. Un clic
di Giorgio immortala l’avvenimento.
La salita prosegue tra lunghi respiri, allegre chiacchierate
e contemplativi silenzi. Il passo è ostacolato da un fiumiciattolo che decidiamo
di attraversare.
Giorgio, spaventato per l’imprudenza che stiamo per compiere,
si appresta a passare davanti, come primo della fila, per poter aiutare
me e Alessandra in difficoltà. Un passo dopo l’altro e raggiungiamo
la sponda opposta del torrente. Una smorfia di compiacimento e uno sguardo
complice ci uniscono, prima di affrontare l’ultimo tratto di salita. Non
c’è tempo per raggiungere la cima. Mi fermo immobile e guardo all’orizzonte;
un ultimo saluto rivolto a questo posto incantevole e magico. Non c’è più
nessuno, i prati sembrano deserti, le rocce solitarie. Siamo rimasti soli.
Percorro con la mente la strada del ritorno e rivivo i momenti trascorsi
con Giorgio ed Alessandra: intensi attimi di comunione che porterò sempre
con me.