CASTELPORZIANO: LA TENUTA DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Non è solo una Tenuta ma un mondo a sé stante: un posto bellissimo,
naturale, di grande quiete a soli 16 chilometri da Roma, verso il mare,
che si estende per 6.000 ettari: il suo perimetro è di quasi 50
chilometri.
La sorveglianza è strettissima - anche se non si vede - per preservare
questa che ormai è un'oasi verde, di così rara bellezza; dal 1979 nel
territorio della Tenuta è stato imposto il silenzio venatorio; per
questo non si caccia più.
La Tenuta è abitata solo nel Borgo dove risiedono stabilmente 44
famiglie tra Polizia, Carabinieri e Guardie Forestali e addetti alla
manutenzione del territorio; il "Borgo", quindi, è l’unico insediamento
abitativo della Tenuta.
L’aspetto della Tenuta, come lo vediamo oggi, ricalca sostanzialmente
l’assetto dato dalla Famiglia Grazioli che investì le sue ricchezze
nella costruzione di strade e nella ricostruzione dell’intero castello
facendo diventare il tutto un luogo signorile, un luogo ameno, dove
poter ospitare il Pontefice, le personalità di Roma , d’Italia e
dell’estero.
La storia della Tenuta, però, è molto più antica; il suo territorio
risulta abitato dall’uomo fin dalla preistoria come dimostrano i
ritrovamenti rinvenuti nel corso degli scavi per la costruzione della
Via Cristoforo Colombo.
Numerosi reperti di ville di alto prestigio dell’età imperiale romana,
poi, testimoniano che il luogo - corrispondente all’antico Fundus
Procilianus (Agro Laurentino) - era stato scelto dall’antica
aristocrazia romana per la vicinanza al mare giacché il territorio
abbraccia la fascia litoranea che va da Ostia ad Anzio.
Le antiche ville romane erano collegate a Roma attraverso un capace
sistema viario costituito dalla Via Ostiense, dalla Via Severiana e
dalla Via Laurentina.
Nella stessa tenuta di Castelporziano ci sono ancora i resti di un
acquedotto e della villa, con relative terme private fornite di
calidarium, tepidarium, frigidarium e palestra, dell'imperatore Commodo
(180 d. C.) che aveva scelto questa residenza in occasione della
pestilenza a Roma ma che ne rimase rapito per la bellezza del paesaggio
che, ora come allora, mostra un universo verde in modo così assoluto e
totale da sentirsi sottratti alle leggi del tempo; se non ci fossero
quei lunghi viali asfaltati si potrebbe credere di essere arrivati qua
in un lontanissimo ieri perché tutto è identico a quell’età remota.
Nel piccolo museo delle Terme allestito all'interno della tenuta sono
conservati parte dei reperti archeologici portati alla luce durante gli
scavi: vi sono dei pezzi molto importanti e altri molto antichi di età
preromana, come i frammenti di una volta dipinta e ricomposta in modo da
poter testimoniare la moda del tempo.
Altro ritrovamento importante rinvenuto nella Tenuta è la statua di un
discobolo;. oggi nel museo è presente soltanto una copia perché
l'originale si trova al Museo delle Terme di Roma; la statua è a
grandezza naturale, priva della testa, di una parte della gamba e di un
braccio ma, è spettacolare.
Dopo la caduta dell'Impero romano e dopo le invasioni barbariche questa
zona entrò a far parte dei beni della Chiesa, fu affidata, di volta in
volta, ad alcuni feudatari di nomina del Vaticano e fu adibita sempre a
tenuta di caccia perché la grande caratteristica era una flora
meravigliosa tipica della macchia mediterranea e la grande quantità di
animali.
Era un luogo molto amato dai nobili nel '700 e nell’'800 per le grandi
battute di caccia.
Nel 1568 una famiglia di origine fiorentina i "del Nero" acquistano la
Tenuta sostanzialmente per ricavarne del reddito. I "del Nero" ebbero
grosse conflittualità con il popolo per l’inosservanza dei diritti
acquisiti dalla popolazione con gli editti papali.
I contrasti si fecero ancora più accentuati e la popolazione diminuì sia
a causa della malaria sia decidendo di andare altrove per le poche
risorse a disposizione: il reddito derivava soltanto dall'allevamento
degli animali allo stato brado, dall’utilizzo dei prodotti del bosco
come il legname grosso e il legname da ardere.
La proprietà dei "del Nero" va avanti per circa quattro secoli finché
l’ultima rappresentante, Ottavia Guadagni, una vedova senza figli,
aliena la proprietà (1824) ad una facoltosa famiglia romana i Grazioli
che per l'acquisizione di meriti importanti da parte del vaticano -
meriti economici - aveva bisogno di darsi un lustro, uno stemma; come
già detto quest’ultima Famiglia promuove opere di varia natura per la
rinascita del territorio.
Gli eventi precipitano e nel 1870 con la presa di Porta Pia i
proprietari si trovano in difficoltà e vendono allo Stato italiano -
tramite il Ministro delle Finanze pro tempore Quintino Sella – la Tenuta
di Castelporziano; ciò per consentire al Re d’Italia Vittorio Emanuele
II di coltivare la sua grande passione: la caccia che lo portava spesso
ad allontanarsi da Roma per la lontana Tenuta in Toscana di S. Rossore;
il territorio, quindi, entra, a far parte dei beni demaniali della
Corona come riserva di caccia.
Vi rimane fino a tutta la seconda guerra mondiale quando, con la caduta
della Monarchia e l'avvento della Repubblica, la tenuta di
Castelporziano passa allo Stato italiano e per norma costituzionale
diventa dotazione immobiliare del Presidente della Repubblica.
Nella zona a nord della Tenuta - lungo la valle di Malafede in un
recinto di quasi 650 ettari – sono allevati i cavalli e i bovini
maremmani che qui vivono quasi allo stato brado; tozzo ma forte, il
primo è un mezzosangue vincitore di diversi premi dedicati alla razza;
il toro, maestoso e possente con lunghe corna a forma di mezzaluna e le
vacche maremmane con le tipiche corna a lira.
All'ombra di boschi si trovano un gran numero di animali che hanno resa
famosa la tenuta, quali il cinghiale, il daino, il capriolo e il cervo
reintrodotto nella tenuta negli anni '50 dopo che era scomparso a
seguito di avvenimenti bellici.
Ci sono anche i piccoli mammiferi quali la volpe, l’istrice, il tasso,
la martora, le lepri, i conigli selvatici e tra i volatili stanziali: i
fagiani, le ghiandaie e il barbagianni, i corvi, il nibbio bruno,
l’airone rosso e il cinerino, le garzette.
Il 70% circa del territorio della tenuta è costituito da boschi con
prevalenza di querce come la farnia, il leccio, il cerro e la sughera
che comincia a fornire il sughero all’età di 25 anni con prelievi ogni
sette anni – in media una sughera vive 200 anni; numerose sono anche
altre piante di alto fusto: il pino domestico - più conosciuto come pino
marittimo - il frassino, l’olmo, l’acero, l’ippocastano, il bagolaro, il
melo e il pero selvatico, l’eucalipto introdotto per bonificare le zone
paludose.
Nella zona di Capocotta la vegetazione cambia: si vedono tuje, noccioli,
aranci, filliree e di notevole interesse sono le pinete, di cui la più
vecchia risale al secolo scorso e una pianta di fillirea di circa 1200
anni abbraccia un rudere antico come volesse proteggerlo dallo scorrere
dei secoli.
Il sottobosco è composto dalle piante tipiche della macchia
mediterranea; il mirto, il lentisco, il corbezzolo, il cisto, l’erica,
la ginestra, l’alloro, l’oleastro, la fillirea, il rosmarino, il rovo,
il ginepro, il prugnolo, il biancospino, l’asfodelo, lo stramonio.
Le dune, che fila dopo fila si spingono fino al mare sono ricoperte da
piante erbacee come il cardo selvatico e cespugli di erbe striscianti
che vivono sulla sabbia e resistono all'azione del vento salmastro.
E’ uno spettacolo che cambia con il fluire delle stagioni e che muta
luce ed emozione durante la giornata; protagonista è la macchia
mediterranea che si presenta su tre livelli: altofusti, arbusti e piante
erbacee alternandosi con dune degradanti verso il mare.
Qui all’imbrunire è possibile udire il rumore sordo del cinghiale in
corsa, gli scatti metallici degli aculei dell’istrice ed il verso dei
rapaci notturni come il barbagianni.
Diana Onni
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