TREKKING
SUL GRAN SASSO
Fare trekking è un’esperienza
decisamente energizzante: di solito si parte la mattina presto, quando l’aria
è ancora frizzante e leggera e lo spirito vorrebbe superare le forze ancora
tenui e fiaccate dal sonno, ingordo ed impaziente di abbracciare con lo
sguardo orizzonti color zaffiro e smeraldo, di sentire nelle narici il vento
profumato da aspre fragranze, di attivare le membra in un’ascesa che ossigeni
i pensieri, finalmente incorniciati dalla libera immaginazione, troppo spesso
prigioniera di affanni e preoccupazioni. Si inizia la giornata con la colazione
e i preparativi “tecnici” di attrezzatura necessaria. Lo zaino di un buon
escursionista non può mancare di un cambio di abbigliamento per eventuali
piogge, di acqua e cibi leggeri ma energetici, di solito frutta e panini.
In questa occasione, con obbiettivo Gran Sasso, dentro di me si fa strada
l’entusiasmo di mettermi alla prova, di “sentire” col corpo e la mente un’emozione
nuova e forte, mentre si allontanano le campane di una chiesa di quartiere
che accompagnano coi loro amichevoli rintocchi, in questi primi metri di
strada verso l’Abruzzo. Destinazione Campo Felice, meta di sciatori d’inverno
e di escursionisti durante la stagione estiva: il nostro percorso si snoderà
dal rifugio-base di “Alantino” (1550 metri) fino al “Rifugio Sebastiani”
(2112 metri), con un dislivello di circa 700 metri.
La bellezza del trekking è che aiuta ad armonizzare gli spiriti
dei partecipanti, tutti concentrati sull’idea di trascorrere una giornata
a contatto con la natura, fin dalla partenza, mentre l’asfalto scorre via
come un lungo nastro di grigia e molle seta sotto le ruote. Eccoci, ci siamo:
poco dopo l’uscita del casello autostradale, si intravede in lontananza
la grande costruzione che durante i mesi invernali è immersa in una coltre
incredibilmente bianca ed uniforme, l’albergo “Alantino”, ora sperduto in
una verdissima vallata incorniciata da colline e montagne che sembrano sorridere
beate ai raggi tiepidi ed incerti di un disco sempre più acceso in un blu
sempre più intenso. Zaini in spalla e un passo dopo l’altro: attraversiamo
il pianoro assolato in cui gli unici elementi che attirano lo sguardo, disperso
in un’appagante distensione, sono minuscoli e numerosissimi fiori bianchi,
gialli e blu, disposti come su un tappeto incantato, tessuto da un bizzarro
sarto che lo ha reso cangiante ad ogni metro.
Le gambe sentono rinnovate energie per correre, rallentare,
salire lievi pendii in un panorama magico ed immobile. Una collina dopo
l’altra, fra cucuzzoli carsici e doline, vallate che si schiudono di fronte
ai miei occhi, mentre il mio cuore gioca con ogni filo d’erba, si rotola
lungo le morbide discese e fa capriole per sentirsi vivere in questo universo
tanto semplice quanto perfetto e completo allo stesso tempo. Dopo circa
40 minuti di sentiero ci inoltriamo in un bosco di faggi, che regala fresco
ed ombra alla pelle appena arrossata dal sole e lievemente imperlata di
sudore: qua e là tra le chiome degli alberi la luce penetra nella verde
galleria per disegnare a terra forme bizzarre e fantasiose, che i piedi
giocano a calpestare. Sui margini del sentiero occhieggiano orchidee selvatiche,
splendide ciocche di delicati petali bianchi e viola, venate di sfumature
sottili, ma dai toni persistenti. Qua e là cumuli di terra, rifugi e gallerie
di talpe, basse bacche di ginepro che ci portano ad immaginare fumanti arrosti
e aromatiche grappe in questo paradiso. Il verde oscuro si sfuma verso la
luce in un anfiteatro naturale al termine del bosco: è mozzafiato il circolo
di monti e ghiaioni dai mille grigi, che insistono su un lago d’erba, la
Valle Leona, trapunta di anemoni bassi e delicatissimi, nati da poco grazie
allo scioglimento delle nevi, che chinano la testa sotto i passi più leggeri
e lenti. Un brivido veloce si arrampica lungo la mia schiena mentre lo sguardo
si perde ad immaginare mondi nascosti oltre le vette ancora zebrate da lingue
di candida e glassata neve sulle estremità più alte del monte Puzzillo e
sui versanti più ombrosi e brulli. La sella del Morretano sulla destra offre
un occhiello di cielo limpidissimo fra le alture, mentre lentamente sopra
le nostre teste si avvicinano, lente ma inesorabili, nuvole di panna montata.
Oltre e ancora oltre: solo ora si intravede un puntino rosso e minuscolo
quasi in cima al monte più lontano, che troneggia di fronte ai nostri petti
ansimanti di fatica ed emozione: gli occhi si ubriacano di cielo per l’ultimo
istante, mentre alle nostre spalle, dalle profondità delle verdi gallerie,
si odono magicamente alternati il verso del cuculo ed il cinguettio dei
passeri, in un concerto intervallato da sublimi silenzi.
Ancora avanti: la mano passa sulla fronte a scansare i capelli,
come per lasciar libera la fronte di immagazzinare nella memoria ogni fotogramma
di questa pellicola in movimento. In lontananza vediamo delle figure in
movimento: cinque, anzi sei persone nella vallata, immerse nel verde fino
alle ginocchia. Alcune sono rivolte verso di noi, forse escursionisti di
ritorno, i primi incontrati da stamattina. Ci avviciniamo di più e man mano
capiamo cosa fanno: chini sulla pianura raccolgono gli “orapi”, una specie
di spinacio selvatico che cresce spontaneo ed abbondantissimo qui nel comprensorio
di Lucoli, paesino a circa 10 km. da Campo Felice, zona inserita nel parco
regionale del Sirente-Velino. Sono contadini di queste parti, tre uomini
e tre donne che punteggiano il verde con i loro abiti da lavoro dai colori
sgargianti e genuini: ci spiegano che l’orapo è ottimo, bollito e col limone.
Un breve saluto, l’augurio di buon lavoro e lo sguardo punta avanti, al
“Sebastiani”, verso il Colletto di Pezza: sfida e obiettivo, con la voglia
di arrivare in cima che lotta con quella che vorrebbe continuare per sempre
questa strada di sassi e sentieri. Altri due o tre saliscendi ed eccoci
alla base della vetta, che ha fatto scomparire dalla prospettiva le montagne
circostanti per attirare tutta l’attenzione su di sé, l’ultimo baluardo
di questo percorso da “espugnare”. La salita si fa più intensa, il sentiero
tortuoso e ripido, ogni passo è studiato per scegliere la roccia più sicura,
l’appoggio più saldo, il percorso più conveniente: intanto le candide nuvole
si gonfiano di pioggia e si abbassano grigiastre.
È necessario accelerare il passo, mentre sempre più spesso
si alzano gli occhi per individuare lo snodarsi del sentiero, sempre più
sottile e meno riconoscibile fra le rocce.
L’aria si fa umida, il respiro accelera per la fatica: bisogna
evitare di trovarsi ancora in marcia quando inizierà a piovere. Un passo,
un passo, ancora uno: ora posso scorgere l’estremità superiore della bandiera,
posta a fianco del rifugio, mentre sento le prime gocce, fredde e pesanti
dietro il collo e sulle braccia. È come lo sprint finale di una gara: manca
una manciata di passi, ci rincuoriamo e stimoliamo a vicenda durante la
fine della salita…ed ecco la piccola radura sulla cima! Il rifugio ha la
porta aperta, dentro un tavolo di legno, una microscopica stanza con tre
letti a castello con sopra tre coperte, una piccola dispensa a muro ed un
fornellino con dei fiammiferi. Appena entrati, fradici più di sudore che
di pioggia, ancora ansimanti ci sorridiamo, soddisfatti di avercela fatta.
Fa freddo qui e per mangiare i panini è meglio mettersi le
giacche a vento: un attimo di pausa, mentre ci guardiamo intorno nel piccolo
ma prezioso ambiente di ristoro, con gli occhi vivi e assetati di ossigeno.
Penso, mentre leggo le istruzioni affisse al muro per i casi di emergenza
che riportano manovre di basilare pronto soccorso e numeri utili, a quante
persone abbiano messo piede qui, stanche ma appagate dal piccolo viaggio
naturale da noi appena compiuto. Le bottiglie vuote con dentro colate di
cera e candele ancora buona ci dimostrano quanto questa scarna costruzione
(inaugurata nei primi anni ’20 e restaurata dal Club Alpino Italiano nel
1976) sia stata approdo di escursionisti stanchi, in difficoltà, infreddoliti
o zuppi per un’improvvisa pioggia, o semplicemente affannati come noi poco
fa.
Ancora risuona nelle mie orecchie il rumore ottuso
e vuoto degli ultimi passi sul terreno roccioso, come il regolare pulsare
del cuore della terra, ancora abbraccio con gli occhi il panorama immenso
della pianura dei Piani di Pezza sottostante, al centro della quale si snoda
come una snella biscia una strada bianca e sinuosa, mentre sentiamo i chicchi
di grandine rimbalzare sulla piccola finestra.
È pausa, è gioia, è soddisfazione: fra poco arriverà il momento
di scendere, ma per ora restiamo qui, a calpestare le morbide travi lignee,
in perfetta comunione con il nostro spirito e con una natura dispettosa
ma clemente.
Alessandra Giordani
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