NOVELLE
STORIA DEL TERZO VECCHIO E DELLA
PRINCIPESSA SCIRINA
Io sono figliuolo unico d’un ricco mercante di Surate. Poco tempo dopo
la sua morte, dissipai la miglior parte dei molti beni ch’egli mi aveva
lasciati, e terminava di consumarne il resto cogli amici, allorché
trovossi per caso alla mia mensa un forastiero che passava per Surate,
per andare all’isola di Serendib. La conversazione cadde sui viaggi. Se
si potesse — soggiunsi sorridendo — andare da un capo all’altro della
terra senza fare cattivi incontri per istrada, domani ancora io uscirei
di Surate.
A queste parole lo
straniero mi disse:
— Malek, se avete voglia
di viaggiare, v’insegnerò, quando vogliate, un modo di andare
impunemente di regno in regno.
Dopo il pranzo, mi prese
in disparte per dirmi che l’indomani mattina si recherebbe da me.
Venuto infatti a
ritrovarmi, mi disse:
— Voglio mantenervi la
parola: mandate da un vostro schiavo a chiamare un falegname, e fate sì
che tornino ambedue carichi di tavole.
Giunti che furono il
falegname e lo schiavo, lo straniero disse al primo di fare una cassa
lunga sei piedi e larga quattro. Il forestiere, dal canto suo non stette
in ozio, fece parecchi pezzi della macchina, come viti e molle,
lavorando ambedue tutto il giorno; dopo di che il falegname fu
licenziato, e lo straniero passò il giorno seguente a distribuire le
molle ed a perfezionare il lavoro.
Finalmente il terzo
giorno trovandosi terminata la cassa, fu coperta con un tappeto di
Persia, e portata in campagna, dove recatomi col forestiero questi mi
disse:
— Rimandate i vostri
schiavi e restiamo qui soli.
Ordinai a’ miei schiavi
di tornare a casa, e solo restai con quello straniero. Mi affannava per
sapere cosa farebbe di quella macchina, allorché vi entrò dentro, e in
pari tempo la cassa si alzò da terra volando per l’aria con incredibile
celerità; e sicché in un momento fu lungi da me, per poi un istante dopo
tornare a discendere a’ miei piedi.
— Voi vedete, — mi disse
il forastiero uscendo dalla macchina — una vettura assai comoda; vi
faccio dono di questa cassa; ve ne
servirete se vi pigli la voglia, quando che sia, di percorrere i paesi
stranieri.
Ringraziai lo straniero
e gli diedi una borsa di zecchini.
— Insegnatemi — gli
domandai poi — come si fa a mettere in moto la cassa?
— È cosa che imparerete
presto, — mi rispose.
Così detto mi fece
entrare nella macchina con lui, poi toccata una vite fummo tosto
sollevati in aria: allora mostrandomi in che modo si avesse a condursi
per dirigersi sicuramente:
— Girando questa vite —
mi diceva — andrete a destra, e girando quest’altra, andrete a sinistra:
torcendo questa molla, salirete; toccando quella là, discenderete.
Volli farne il saggio io
medesimo. Girai le viti, e toccai le molle; ed infatti la cassa,
obbediente alla mia mano, andava secondo che mi piaceva e mi precitava a
mio piacere o rallentava il movimento. Fatte alquante giravolte per
l’aria, spiccammo il volo verso casa, e andammo a scendere nel mio
giardino. Fummo a casa prima de’ miei schiavi; feci chiuder la cassa nel
mio appartamento, ed il forestiere se ne andò. Continuai a divertirmi co’
miei amici sino a tanto che ebbi terminato di mangiare il mio
patrimonio; incominciai anche a prendere in prestito, sì che
insensibilmente mi trovai carico di debiti. Vedendomi vicino a soffrire
dispiaceri ed affronti, ricorsi alla mia cassa; la trascinai di notte
tempo dal mio appartamento in una corte, mi vi chiusi dentro con dei
viveri ed il poco denaro che mi rimaneva. Toccai la molla che faceva
ascendere la macchina: poi girando una vite, mi allontanai da Surate e
da’ miei creditori. Feci, durante la notte, andare la cassa più
velocemente possibile. Allo spuntar del giorno, guardai per un buco, ma
non vidi che montagne, che precipizi, e una campagna arida.
Continuai a percorrere
l’aria tutto il giorno e l’indomani mi trovai sopra un bosco foltissimo,
presso al quale era un’assai bella città. Mi fermai per considerare la
città, non meno che un palazzo magnifico che presentavasi a’ miei occhi,
quando vidi un contadino nella campagna che lavorava la terra. Discesi
nel bosco, e lasciatavi la cassa, mi avanzai verso l’agricoltore, al
quale domandai come si chiamasse quella città.
— Giovane — quegli mi
rispose — si vede bene che siete forestiero poiché non sapete che questa
città si chiama Gazna. Quivi fa il suo
soggiorno il buono e valoroso re Bahaman.
— E chi alberga — gli
chiesi — in quel palazzo?
— Il re di Gazna —
rispose l’ha fatto fabbricar per tenervi rinchiusa la principessa
Scirina sua figliuola, dal suo oroscopo minacciata d’esser ingannata da
un uomo.
Ringraziai il contadino
di avermi istruito di tutte queste cose, e volsi i passi verso la città.
Com’era presso ad entrarvi, udii un gran rumore, e presto io vidi
comparire parecchi cavalieri magnificamente vestiti, tutti montati sopra
bellissimi cavalli, riccamente bardati. In mezzo a quella superba
cavalcata eravi un uomo grande che teneva in testa una corona d’oro, i
cui abiti erano sparsi di diamanti; giudicai che fosse il re di Gazna e
seppi infatti nella città che non mi ero ingannato.
Fatto il giro della
città, mi risovvenni della mia cassa; uscito da Gazna, non acquietai
l’animo sin che non fui giunto dove si trovava.
Allora ripigliai la mia
tranquillità; mangiai con molto appetito quel che mi restava di
provvigioni e siccome capitò presto a notte, determinai di passarla in
quel bosco. Non mi riuscì di addormentarmi: ciò che il contadino mi
aveva narrato della principessa Scirina mi stava senza posa fitto nel
pensiero.
A forza di pensare a
Scirina, che io mi dipingeva più bella di quante mai donne avessi
vedute, mi venne voglia di tentare la fortuna.
— Bisogna — dissi tra me
— che mi trasporti sul tetto del palazzo della Principessa, e procuri
d’introdurmi nel suo appartamento; chi sa che non abbia la ventura di
piacerle?
Formai dunque la
temeraria risoluzione e la posi sul momento ad effetto. Sollevatomi in
aria, condussi la mia cassa verso il palazzo. Passai senza essere scorto
sopra la testa dei soldati, e discesi sul tetto. Uscito dalla cassa,
sdrucciolai dentro per una finestra, entrando in appartamento adorno di
ricche suppellettili, dove sopra un sofà di broccato riposava la
principessa Scirina, che mi parve di abbagliante bellezza.
Me le accostai per
contemplarla: mi posi poi ginocchioni a lei dinanzi, baciandole una di
quelle bellissime mani.
Destossi sul momento, e
scorgendo un uomo in atteggiamento
d’intimorirla, diè un grido che presto attrasse presso di lei l’aia, la
quale dormiva in una stanza vicina.
— Mahpeiker — le disse
la Principessa — accorrete in mio aiuto; ecco un uomo; come poté egli
introdursi nel mio appartamento? O piuttosto, non siete voi complice del
suo misfatto?
— Chi, io? — ripigliò la
governante — Ah! questo sospetto mi oltraggia: non istupisco meno di voi
di vedere qui questo giovane temerario; d’altra parte, quando pure
avessi voluto favorire la sua audacia, come avrei potuto ingannare la
Guardia vigilante che sta intorno al castello? Sapete che vi sono venti
porte di acciaio da aprire prima di giunger qui; che sopra ogni
serratura sta impresso il regio sigillo, e che il re vostro padre ne
tiene le chiavi: non comprendo in qual maniera questo giovane abbia
superate tante difficoltà.
Intanto che l’aia
parlava in tal guisa, io pensava a quello che avessi a dire. Mi venne in
mente di persuaderla d’essere il profeta Maometto.
— Bella Principessa —
dissi dunque a Scirina — non istupite, e neppure voi, Mahpeiker, se mi
vedete comparire qui. Io sono il profeta Maometto, e non ho potuto,
senza pietà vedervi condannata a passare i bei giorni vostri in un
carcere, e vengo a darvi la mia fede per mettervi al sicuro della
predizione di cui si spaventa Bahaman vostro padre. Mettete ormai, come
lui, lo spirito in calma sul vostro destino ch’essere non saprebbe se
non pieno di gloria e di felicità, poiché sarete sposa a Maometto. Tosto
che sia sparsa nel mondo la nuova del vostro maritaggio, tutti i Re
temeranno il suocero del gran Profeta, e tutte le principesse
v’invidieranno sì gran sorte.
Mahpeiker e la
principessa prestarono fede alla mia favola.
Passata la miglior parte
della notte colla principessa di Gazna, uscii prima di giorno dal suo
appartamento, non senza prometterle di tornare l’indomani. Corsi al più
presto alla macchina, e postomici dentro, mi sollevai altissimo per non
esser veduto dai soldati.
Andato a discendere nel
bosco, vi lasciai la cassa e presi la via della città, ove comprai delle
vettovaglie per otto giorni, degli abiti magnifici, un bel turbante di
tela delle Indie a righe d’oro, con una ricca cintura; né dimenticai le
essenze ed i profumi migliori, impiegando in queste spese tutto il mio
denaro.
Rimasi tutto il giorno nel bosco ad abbigliarmi e profumarmi. Appena
giunta la notte, entrai nella cassa e volai sul tetto del palazzo di
Scirina, introducendomi nel suo appartamento come la notte precedente.
La Principessa dimostrò come mi attendesse con molta impazienza.
— O gran Profeta! — mi
disse — incominciava ad inquietarmi, e temeva che aveste già dimenticata
la vostra sposa. Ma ditemi, perché avete l’aspetto così giovanile? Io
m’immaginava che il profeta Maometto fosse un vegliardo venerabile.
— Né v’ingannate — le
dissi — ed è l’idea che aver si deve di me; e se vi comparissi dinanzi
qual apparisco talvolta ai fedeli a’ quali mi compiaccio di fare un
simile onore, mi vedreste una lunga barba bianca: ma mi è parso che voi
amereste una figura meno antica, e per questo presi la forma d’un
giovane.
Uscii nuovamente dal Castello sulla fine della notte, e vi tornai
l’indomani sempre conducendomi così destramente, che Scirina e Mahpeiker
non sospettarono nemmeno che vi potesse essere nel fatto nessun inganno.
Al termine di alcuni
giorni, il re di Gazna recossi, seguito da’ suoi ufficiali, al Palazzo
della Principessa sua figliuola, e trovandone le porte ben chiuse, ed il
suo sigillo sulle serrature, disse a’ suoi Visir che lo accompagnavano:
— Tutto cammina per il
meglio. Sinché le porte del palazzo rimarranno in questa condizione,
poco temo la disgrazia ond’è minacciata mia figlia.
Salì solo all’appartamento di Scirina, che, al vederlo, non poté non
turbarsi, ed egli avvistosene, volle saperne la cagione; curiosità che
accrebbe il turbamento della principessa, la quale vedendosi finalmente
obbligata, ad appagarlo, gli narrò tutto quanto era corso. Si può
immaginarsi qual fu lo stupore del re Bahaman, allorché seppe di essere,
all’insaputa sua, suocero di Maometto.
— Ah! quale assurdità —
esclamò egli — ah figlia, quanto siete credula! O cielo! ben veggo
presentemente come sia inutile voler evitare le disgrazie che tu ci
riservi; l’oroscopo di Scirina è compiuto, un traditore l’ha sedotta!
Così dicendo, uscì
agitatissimo dall’appartamento della Principessa, e visitò da cima a
fondo tutto il palazzo. Ma ebbe un bel cercare per ogni dove; che non
iscoprì traccia veruna del seduttore.
Per dove — chiedeva egli
— può essere entrato l’audace in questo castello? Davvero ch’io nol so
comprendere.
Bahaman, attendendo la
notte, si diede nel frattempo a fare nuove interrogazioni alla
Principessa, domandandole prima di tutto se avesse mangiato con lei.
— No, o signore — gli
disse la figliuola — indarno gli ho offerto vivande e liquori; non ne ha
voluto, e dacché viene qui, non l’ho veduto mai prender cibo di sorta.
Frattanto capitò la
notte. Sedutosi Bahaman sur un sofà, fece accendere i lumi che furongli
posti davanti sopra una tavola di marmo, mentre egli sguainò la spada,
per servirsene al caso, lavando nel sangue l’affronto fatto all’onor
suo. Un lampo che ferì gli occhi del Re lo fece rimbalzare, onde si
avvicinò alla finestra per la quale gli raccontò Scirina ch’io doveva
entrare e vedendo il cielo tutto di fuoco, gli si turbò l’immaginazione.
Nella disposizione in cui trovavasi l’animo del Re, io poteva
presentarmi impunemente dinanzi a quel principe, ed anzi, lungi dal
dimostrarsi furibondo allorché io apparvi alla finestra, si trovò tutto
compreso da rispetto e timore; per modo che, lasciatasi cader di mano la
sciabola e, cadendomi a’ piedi, me li baciò, e mi disse:
— O gran Profeta! Chi
sono e che ho io meritato per meritar l’onore d’esservi suocero?
— O gran re — gli dissi
rialzandolo — voi tra tutti i principi musulmani siete il più attaccato
alla mia religione: per conseguenza chi più dev’essermi gradito! Era
scritto sulla tavola fatale che vostra figlia sarebbe sedotta da un
uomo, il che i vostri indovini hanno benissimo scoperto mediante i lumi
dell’astrologia: ma io pregai l’altissimo Allah di risparmiarvene il
dispiacere mortale, e togliere simile disgrazia alla predestinazione
degli uomini; il che egli si compiacque di fare per amor mio, a
condizione che Scirina diventasse una delle mie mogli.
Credette il debole Principe tutto ciò che gli dissi, e beato
d’imparentarsi col gran Profeta mi si gettò una seconda volta ai piedi,
per attestarmi il sentimento che aveva della mia bontà. Lo rialzai di
nuovo, lo abbracciai, e lo assicurai della mia protezione, intanto
ch’egli non sapeva trovar termini a suo grado abbastanza forti per
ringraziarmene. Dopo di che, credendo che fosse creanza il lasciarmi
solo con sua figlia, si ritirò in altra stanza.
Rimasi con Scirina
alquante ore: ma al finir della notte, me ne tornai al bosco.
Nel medesimo giorno
avvenne un incidente che terminò di raffermare il Re nell’opinione sua.
Mentre egli tornava col suo seguito alla città li sorprese nella pianura
un temporale, durante il quale mille lampi gli coprirono gli occhi.
Accadde per caso che il
cavallo di un cortigiano, incredulo a ciò che riguardava il preteso
Profeta, adombrasse; s’impennò e gettò per terra il padrone che si ruppe
una gamba.
— O miserabile! —
esclamò il Re, vedendo cadere il cortigiano — ecco il frutto della
ostinazione nel non volermi credere che il Profeta ti punisce.
Portarono il ferito a
casa sua, e non fu Bahaman sì tosto nel suo palazzo che fece pubblicare
un bando per Gazna, col quale diceva esser suo volere che tutti gli
abitanti celebrassero con grandi feste il matrimonio di Scirina, con
Maometto.
Si fecero pubbliche
allegrezze, ed udivasi da per tutto gridare:
— Viva Bahaman suocero
del Profeta!
Tosto capitata la notte,
volai al bosco, e presto fui dalla Principessa.
— Bella Scirina — le
dissi entrando nel suo appartamento — voi non sapete ciò che oggi è
accaduto nella spianata. Un cortigiano il quale dubitava che voi aveste
sposato Maometto, espiò il suo dubbio; suscitai una tempesta della quale
il suo cavallo si spaventò; ed il cortigiano caduto, si spezzò una
gamba.
Passato quindi alcune
ore colla Principessa, me ne partii.
Il giorno dopo il Re
riunì i suoi Visir e i suoi cortigiani:
— Andiamo tutti insieme
— disse loro — a chieder perdono a Maometto pel disgraziato che negò di
credermi, ed ebbe il gastigo della sua incredulità.
In pari tempo, montati a
cavallo, recaronsi al Palazzo della Principessa, ed egli, seguito da’
suoi, salì all’appartamento di sua figlia, a cui disse:
— Scirina, veniamo a
pregarvi d’intercedere presso il Profeta per un uomo che si è attirato
il suo sdegno.
— So cosa è, o signore,
— gli rispose la Principessa — Maometto me ne ha parlato.
Tutti i ministri e gli
altri rimasero convinti che quella era moglie del Profeta, e
prosternandosi a lei dinanzi, umilmente la supplicarono a pregarmi in
favore del cortigiano ferito: il che
essa loro promise.
Nel frattempo mangiai
tutto ciò che aveva di vettovaglie, e siccome non mi restava più denaro,
così il Profeta Maometto incominciava a non saper più dove batter la
testa. Immaginai allora un espediente: — Principessa — dissi una notte a
Scirina — abbiamo dimenticato di osservare nel nostro matrimonio una
formalità: Voi non mi deste dote, e questa ommissione mi fa pena.
Basterà che mi diate alcuno dei vostri gioielli, sola dote ch’io vi
domandi.
Scirina voleva caricarmi
di tutte le sue gemme, ma io mi contentai di prendere due grossi
diamanti, che il giorno appresso vendetti a un gioielliere.
Era già quasi un mese
che passando pel Profeta menava una vita piacevolissima, allorché capitò
nella città di Gazna un Ambasciatore che veniva da parte di un Re vicino
a chiedere Scirina in matrimonio.
— Mi duole — rispose
Bahaman — di non poter accordare al re vostro signore mia figlia,
avendola data in isposa al Profeta Maometto!
L’Ambasciatore, da tale
risposta del Re, argomentò che fosse divenuto pazzo.
Prese congedo, e ritornò
al suo Signore, che alla prima credette che quello avesse perduto il
senno; poi imputando il rifiuto a disprezzo, fu punto, e chiamate
alquante truppe, formò un grosso esercito, col quale entrò nel regno di
Gazna.
Questo Re chiamavasi
Cacem, ed era più forte di Bahaman; il quale dall’altra parte si preparò
così lentamente a ricevere il nemico, che non gli poté impedire di fare
grandi progressi.
Intanto il Re di Gazna,
informato del numero e del valore dei soldati di Cacem, incominciò a
tremare, e radunato il suo consiglio, il cortigiano fattosi male cadendo
da cavallo, parlò in questi termini:
— Io stupisco che il Re
dimostri in questa occasione tanta inquietudine. Qual danno, tutti i
Principi del mondo insieme uniti, possono mai cagionare al suocero di
Maometto?
— Avete ragione; al gran
Profeta appunto io devo rivolgermi. Ciò detto andò a trovare Scirina, a
cui disse:
— Figlia, appena domani
spunterà la luce del giorno, Cacem ci deve assalire, e temo non isforzi
i nostri trinceramenti; vengo dunque a pregar Maometto di volerci
aiutare.
—
Signore — rispose la principessa — non sarà
troppo difficile
interessare alle nostre parti il Profeta: egli disperderà ben presto le
truppe nemiche, ed a spese di Cacem impareranno a rispettarvi tutti i Re
del mondo!
— Intanto — riprese il
Re — la notte si avanza, ed il Profeta non comparisce: ci avrebbe egli
abbandonati?
— No, padre mio —
ripigliò Scirina — non crediate che egli ci possa mancare nel bisogno.
Ei vede dal cielo, dov’è l’esercito che ci assedia, e forse sta già
mettendovi il disordine ed il terrore.
Era infatti ciò che
Maometto aveva voglia di fare.
Osservate, nel corso del
giorno, di lontano, le schiere di Cacem, ne avevo notata la
disposizione, e preso sopratutto di mira il quartiere del Re.
Raccolti quindi molti ciottoli
grandi e piccoli, ne riempii la cassa, e sollevandomi verso mezzanotte
nell’aria, m’inoltrai verso le tende di Cacem, tra le quali distinsi
quella in cui il Re riposava.
Tutti i soldati che
trovavansi attorno alla tenda dormivano il che mi concesse di scendere,
senza che alcuno mi scorgesse, sino ad una finestra, d’onde vidi il Re
coricato sur un sofà.
Uscii mezzo dalla mia
cassa, e scagliando a Cacem un gran sasso, lo colpii in fronte ferendolo
gravemente.
Egli sentendosi colpire
mandò un alto strido, che subito destò le guardie e gli ufficiali, i
quali accorsi dal Principe, lo trovarono coperto di sangue e quasi senza
sentimenti.
Intanto io mi sollevai
sino alle nubi, lasciando cadere una grandine di pietre sulla tenda
reale e nelle vicinanze.
Allora il terrore
s’impadronì dell’esercito; i nemici di Bahaman, colti da terrore, si
diedero alla fuga con tal furia, che abbandonarono equipaggi, tende, e
ogni cosa gridando:
— Siam perduti! Maometto
ci stermina tutti quanti.
Il Re di Gazna restò
assai sorpreso allo spuntar del giorno, quando si avvide che il nemico
si ritirava. Si diede dunque a perseguitarlo co’ suoi migliori soldati,
e fatta strage dei fuggitivi, raggiunse Cacem, la cui ferita gl’impediva
di correre prestissimo.
— Perché — si fece a
dirgli — sei venuto contro ogni ragione e diritto ne’ miei stati? Quale
motivo ti ho dato di farmi guerra?
— Bahaman — gli rispose
il Re vinto — io mi immaginava che tu
mi avessi negata la figlia per dispetto, e io ho voluto vendicarmi! Non
potevo credere che il Profeta ti fosse genero: ma ora però non ne
dubito, perché egli solo fu quello che mi ferì.
Bahaman cessò di
perseguitare i nemici, e tornò a Gazna, con Cacem, il quale morì della
sua ferita.
In tutte le moschee si
fecero preghiere per ringraziare il cielo di aver confusi i nemici dello
Stato, e quando fu notte, il Re si recò al palazzo della Principessa.
— Figlia — le disse —
vengo a render grazie al Profeta di quanto gli debbo.
Presto ebbe il contento
che bramava, ché subito entrai per la solita finestra nell’appartamento
di Scirina.
Gettandosi subitamente
a’ miei piedi, il Re baciò la terra dicendo:
— O gran profeta! non vi
sono termini, per esprimervi tutto ciò che provo.
Sollevai Bahaman e lo
baciai in fronte dicendogli:
— Principe, voi poteste
pensare che io vi negassi l’aiuto mio nell’impaccio nel quale per mio
amore voi vi trovate: ho punito l’orgoglioso Cacem, che voleva rendersi
padrone de’ vostri Stati, e rapire Scirina, per metterla tra le schiave
del suo Serraglio.
Nuovamente assicurato il
Re di Gazna che io prendeva sotto la mia protezione il suo regno se
n’andò per lasciarmi Scirina in libertà.
La qual Principessa non
meno sensibile del Re suo padre all’importante servigio da me reso allo
Stato, me ne dimostrò non minore riconoscenza, facendomi mille carezze.
Poco mancò che quella volta non dimenticassi le mie parti: già stava per
apparire il giorno allorché tornai alla mia cassa.
Due giorni dopo, sepolto
Cacem, il Re di Gazna, ordinò che si facessero per la città grandi
allegrezze, tanto per la disfatta delle truppe nemiche quanto per
celebrare solennemente il matrimonio della principessa Scirina con
Maometto.
M’immaginai di dover
segnare con qualche prodigio la festa che si facea in onor mio, e a tale
effetto, comprata della pece, con dei semi di cotone ed un piccolo
acciarino, passai la giornata nel bosco a preparare un fuoco
d’artificio, bagnando il seme di cotone nella pece, e la notte, mentre
il popolo divertivasi nelle strade, mi trasferii sopra la città,
inalzatomi più alto che mi fosse possibile, accesi la pece, che colla
grana fece un bellissimo effetto: poi
ritornai nel mio bosco.
Fatto dopo poco giorno,
andai alla città per avere il piacere di udir cosa si direbbe di me.
Mille discorsi stravaganti si facevano dal popolo sul tratto ch’io gli
aveva giuocato. Tutti quei discorsi mi divertirono infinitamente: ma
ohimè! mentre mi prendeva quel piacere la mia cassa, la mia cara cassa,
l’istrumento de’ miei prodigii, vidi che ardeva nel bosco!
Probabilmente durante la
mia assenza s’appiccò alla macchina una scintilla, della quale non mi
era avveduto, la consumò, sì che al ritorno la trovai tutta in cenere.
Eccheggiò il bosco delle mie grida e de’ miei lamenti e invano mi
strappava i capelli e mi lacerava le vesti....
Intanto il male era
senza rimedio; bisognava prendere una risoluzione, né me ne restava che
una sola: quella cioè di andare a cercar fortuna altrove. Così il
Profeta Maometto, si allontanò dalla città di Gazna.
Incontrai tre giorni
dopo una grossa carovana di mercanti del Cairo che tornavano in patria;
mi mischiai con essi, e recatomi al gran Cairo, mi posi a esercitare la
mercatura. Girai molti paesi e visitai non poche città, sempre
ricordandomi del mio felice passato. Finalmente invecchiato, capitai fin
qua, imbattendomi nell’infelice a cui tu, o gran principe de’ Genii,
volevi toglier la vita.
Il Genio, non appena n’ebbe udito la fine, accordò l’ultimo terzo della
grazia del mercante, e poscia disparve.
Il mercante non mancò di
rendere a’ suoi tre liberatori le grazie che loro doveva, e se ne tornò
presso la sua sposa e i suoi figli, e passò tranquillamente con loro il
resto de’ suoi giorni.
|