SINDBAD IL MARINAIO
SECONDO VIAGGIO
— Io aveva risoluto, dopo il mio primo
viaggio, di passare tranquillamente il resto de’ miei giorni a Bagdad:
ma non istetti a lungo senza annoiarmi di una vita oziosa e fui preso di
nuovo dal desiderio di navigare e negoziare; comprai le mercanzie
opportune a fare il traffico prefissomi, partendo una seconda volta con
altri mercanti di cui era nota la probità.
C’imbarcammo su di un buon naviglio e dopo
esserci raccomandati a Dio, sciogliemmo le vele.
Essendo un giorno sceso con altri compagni in
un isolotto, mentre si divertivano a cogliere fiori e frutta io presi le
mie provvigioni portate meco e mi sedei vicino ad un ruscello all’ombra
d’un albero; feci un buonissimo pasto, indi preso dal sonno
m’addormentai: ma al mio risveglio non vidi più il bastimento
all’ancoraggio.
Lascio immaginare a voi la mia dolorosa
sorpresa: credetti morir di dolore. Finalmente mi rassegnai al volere di
Dio, e senza sapere quel che sarebbe avvenuto di me salii su di un
grand’albero da dove osservai per tutti i lati onde vedere di scoprir
qualcosa che potesse darmi qualche speranza di salvezza.
Volgendo gli occhi sul mare non scorsi che
acqua e cielo: ma avendo osservato dalla parte di terra qualche cosa di
bianco, scesi dall’albero, e coi viveri rimastimi diressi da quella
parte i miei passi.
Quando fui ad una certa distanza, osservai
essere l’affare bianco un globo di un’altezza e di una grossezza
prodigiosa. Avvicinatomi, lo toccai, e lo trovai levigatissimo. Girai
intorno per vedere se vi fosse qualche apertura, ma non ne scorsi alcuna
e mi parve impossibile potervi salir su, tanto era levigato.
Il sole allora era presso al tramonto e
l’aria si oscurò ad un tratto come se fosse coperta da una densa nube.
Ma se io fui stupito di quella oscurità, lo
fui ancor più quando mi accorsi ch’era cagionata da un uccello d’enorme
e straordinaria grandezza il quale volando si avanzava verso di me.
Mi ricordai d’un uccello chiamato Roc, di cui
aveva sovente udito parlare dai marinai, e compresi
essere il grosso globo un uovo di
quell’uccello.
Infatti ei scese e vi si pose sopra per
covarlo.
Vedendolo venire, io mi era talmente
avvicinato all’uovo ch’ebbi innanzi a me uno dei piedi dell’uccello, e
quel piede era grosso quanto un tronco d’albero.
Mi vi legai fortemente con la tela che
circondava il mio turbante, sperando che quando il Roc riprenderebbe il
volo, mi avrebbe portato fuori di quell’isola disabitata. Difatti, dopo
aver passata così la notte, fattosi giorno, l’uccello prese il volo e mi
alzò così alto ch’io non vedea più la terra, poi discese con tanta
rapidità ch’io non sentiva più me stesso.
Quando posossi, ed io mi vidi a terra,
sciolsi subito il nodo il quale mi teneva avvinto al suo piede; non
appena ebbi terminato di staccarmi, ei diede col suo becco sopra un
serpente di non mai vista lunghezza: lo prese e subito se ne volò via.
Il luogo ove mi lasciò era una valle
profondissima circondata da montagne altissime.
Camminando per quella valle, osservai esser
la medesima disseminata di diamanti, dei quali alcuni erano di
meravigliosa grandezza.
Ebbi molto piacere nel guardarli, ma subito
vidi da lungi molti esseri i quali diminuirono simil piacere; era un
grosso numero di serpenti sì grossi e lunghi da poter ognuno di essi
inghiottire un elefante. Durante il giorno si ritiravano nei loro antri
ove si nascondevano a causa del Roc loro nemico, uscendo solo di notte.
Il sole tramontò ed al venir della notte mi
ritirai in una grotta, ove credei essere al sicuro.
Venuto il giorno i serpenti si ritirarono;
allora io uscii dalla mia grotta, e posso asserire di aver camminato
lungo tempo sui diamanti, senza averne il menomo desiderio. Infine
sedetti, e ad onta dell’inquietudine ond’era agitato, siccome non avea
chiuso occhio in tutta la notte, mi addormentai, dopo aver mangiato
alquanto: era appena sopito, quando qualche cosa cadde con grande
strepito vicino a me e mi risvegliò. Era un grosso brano di carne
fresca, e nello stesso tempo ne vidi rotolare molti altri dall’alto
delle rupi in luoghi differenti. Io avea sempre tenuto per un racconto
favoloso che aveva udito dire più volte da alcuni marinai e da altre
persone circa la valle dei diamanti e allo stratagemma usato da alcuni
mercanti per cavarne le pietre preziose; onde conobbi che avevano detto
la verità.
Infatti i mercanti vanno presso quella valle
nel tempo in cui le aquile hanno i figli, tagliano della carne e ve la
gettano a grossi pezzi: i diamanti, sulla punta dei quali cadono, vi si
attaccano.
Le aquile che in quel paese sono più forti
che altrove, si calano sui pezzi di carne e li portano nei loro nidi
alla sommità delle roccie onde servan di pasto agii aquilotti. Allora i
mercanti correndo ai nidi, obbligano colle loro grida le aquile ad
allontanarsi, e prendono i diamanti che trovano attaccati ai pezzi di
carne.
Io aveva creduto fino allora che mi sarebbe
stato impossibile di uscir da quell’abisso: ma quel che vidi mi offrì
campo di immaginare il mezzo di salvarmi la vita. Cominciai a
raccogliere i diamanti più grossi che presentaronsi a’ miei occhi e ne
riempii la mia borsa di cuoio la quale mi aveva servito per le
provvisioni di bocca: indi presi un grosso pezzo di carne e lo legai
fortemente intorno alla mia vita con la tela del mio turbante, poscia mi
tesi boccone, colla borsa di cuoio legata alla cintura in modo che non
potesse cadere. Le aquile vennero: ognuna si prese un pezzo di carne,
una delle più forti avendomi sollevato unitamente col pezzo di carne col
quale io mi era avviluppato, mi portò alla sommità della montagna fin
dentro al suo nido.
I mercanti non mancarono allora di spaventare
colle grida le aquile, e quando le ebbero obbligate a lasciare la preda,
un d’essi mi s’appressò: ma appena mi vide, fu preso da timore.
Nulladimeno si rassicurò, ed invece
d’informarsi per quale avventura mi trovassi colà, cominciò a
rimproverarmi, domandandomi perché gli rapissi ciò che gli apparteneva.
— Mi parlerete con più umanità — gli diss’io
— quando mi avrete meglio conosciuto. Ho diamanti per voi e per me, più
che non ne potrebbero avere tutti gli altri mercanti insieme. Ho scelto
da me stesso in fondo della valle quelli che porto in questa borsa.
_ Ciò dicendo, gliela mostrai, e non appena
terminai di parlare, i mercanti che mi videro si affollarono Intorno a
me molto meravigliati di vedermi, ed il racconto della mia storia
aumentò la loro meraviglia.
Mi condussero all’alloggio ov’essi
dimoravano, ed ivi avendo aperta la mia borsa in loro presenza, la
grossezza dei miei diamanti li stupì.
Io pregai il mercante cui apparteneva il nido
ov’io ero stato trasportato (avendo ogni mercante il suo), di sceglierne
quanti ne volesse. Egli si contentò di prenderne uno solo.
Passai la notte con que’ mercanti. Non potevo
moderare la mia gioia quando rifletteva d’essere fuori dei pericoli di
cui vi ho parlato, e mi pareva che lo stato in cui mi trovavo fosse un
sogno, non potendo credere di aver altro a temere.
Partimmo insieme l’indomani e camminammo per
alte montagne, ov’erano serpenti di una prodigiosa grossezza, avendo
cura di evitarli; arrivati al primo Porto, passammo all’isola di Roha,
ove cresce l’albero dal quale si estrae la canfora. Tralascio molte
altre particolarità di quell’isola, temendo di annoiarvi. Quivi barattai
alcuni de’ miei diamanti con buona mercanzia; di là andammo ad altre
Isole in relazione di commercio ed approdammo a Bassora, da dove me ne
venni a Bagdad.
Appena giunto feci molte elemosine ai poveri,
e godetti onoratamente del resto dell’immense ricchezze ch’io avea
recate.
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