NOVELLE
STORIA DEL PRIMO CALENDER
— Signora, io vi dirò che son nato figlio di
Re. Mio padre aveva un fratello che regnava con lui in uno Stato vicino.
Questo fratello ebbe due figli, un Principe ed una Principessa.
Quando il Re mio padre mi diede una onesta
libertà, andava regolarmente ogni anno dal Re mio zio. Questi viaggi, al
Principe mio cugino ed a me, diedero occasione di contrarre insieme una
fortissima e singolare amicizia. L’ultima volta che io lo vidi mi disse:
— Cugino, voi non indovinereste mai in che mi
son occupato durante il vostro ultimo viaggio. Ho fatto fare un edificio
ch’è terminato e si può adesso abitare: non vi dispiacerà di vederlo; ma
bisogna prima che facciate giuramento
di mantenermi il segreto e la fedeltà; queste due cose esigo da voi.
Feci il giuramento
ch’ei desiderava, e allora mi disse:
— Aspettatemi qui, ritorno fra un momento.
Infatti non tardò a venire e lo vidi entrare
con una donna di bellezza singolare, e magnificamente vestita.
Ci rimettemmo a tavola con la donna, e
c’intrattenemmo ancor qualche tempo di cose indifferenti.
Dopo ciò il Principe mi disse:
— Cugino, non abbiamo tempo da perdere,
favoritemi di menar con voi questa donna, e conducetela da questa parte
ad un luogo dove è un sepolcro a cupola fabbricata di fresco.
Fedele al mio giuramento, non volli saper
altro. Appena fummo giunti al sepolcro, vedemmo comparire il Principe
che ci seguiva, portando una brocchetta piena di acqua, una zappa ed un
sacchetto con gesso. Colla zappa demolì l’avello ch’era nel mezzo del
sepolcro, e tolte le pietre l’una dopo l’altra, le pose in un angolo.
Quando l’ebbe levate tutte, scavò la terra, e
vidi che sotto l’avello eravi una botola. Egli l’alzò, e al di sotto
scopersi la cima d’una scala.
Allora mio cugino, volgendosi alla donna, le
disse:
— Signora, ecco d’onde
si va al luogo di cui ho parlato.
La donna a queste parole si appressò e
discese, ed il Principe si pose in atto di seguirla; ma volgendosi prima
verso di me disse:
— Cugino, vi son molto obbligato della pena
che vi siete presa, ve ne ringrazio, addio.
Non potei ottener altro dal Principe mio
cugino, e fui obbligato di prendere da lui commiato. Tornai quindi al
palazzo del Re mio zio.
Bisogna sapere che in questo tempo il Re mio
zio era assente. Mi annoiai d’aspettarlo: e dopo aver pregato i suoi
ministri di fare al suo ritorno le mie scuse, partii dal suo palazzo per
tornare alla Corte di mio padre.
Giunsi alla capitale ove dimorava mio padre,
e trovai, contro l’ordinario, alla porta del suo Palazzo una guardia, da
cui entrando fui circondato. Ne domandai la ragione e l’uffiziale mi
rispose:
— Principe, l’esercito ha riconosciuto, in
luogo del Re vostro padre, il gran Visir, ed io vi fo prigioniero per
parte del nuovo Re!
A queste parole le guardie s’impadronirono di
me, e mi condussero avanti al tiranno.
Questo ribelle Visir aveva concepito per me
un odio immenso ed eccone la cagione. Nella mia più tenera età io amava
a tirar la balestra. Un giorno sul terrazzo del Palazzo mirai un uccello
che si presentò dinanzi: ma sbagliai il colpo, e la freccia per caso
andò a colpire dritto nell’occhio del Visir.
Quando seppi questa disgrazia, mi feci
giustificare presso il Visir, ma egli non cessò di conservare un vivo
risentimento contro di me.
Tosto che fui in suo potere, venne a me come
una furia e cacciando le sue dita nel mio occhio dritto, me lo sfondò,
ecco perché son cieco. Ma l’usurpatore non si arrestò a questa sola
crudeltà; mi fece chiudere in una cassa, ed ordinò al carnefice di
portarmi molto lontano dal Palazzo, ed abbandonarmi agli uccelli di
rapina, dopo avermi tagliata la testa. Il carnefice salì a cavallo,
carico della cassa, e si arrestò nella campagna per eseguire gli ordini:
ma io feci tanto colle preghiere e colle lacrime, che eccitai la sua
compassione.
— Andate — mi disse — uscite subito dal
Regno, e non vi rientrate più mai, perché incontrereste la vostra
perdita, e sareste cagione della mia.
— Nello stato in cui era, io non potevo molto
camminare: quindi mi ritirava in un luogo appartato durante il giorno, e
camminavo la notte per quanto mel permettevano le forze.
Indi arrivai negli stati del Re mio zio, e
andai alla capitale.
Gli feci una lunga narrazione della tragica
causa del mio ritorno, e del tristo stato in cui mi vedeva.
— Ah! esclamò — non bastava d’aver perduto
mio figlio! Doveva ancora apprendere la morte d’un fratello carissimo, e
vedervi nel deplorevole stato in cui siete ridotto!
Mi dimostrò la inquietudine in cui era, per
non aver ricevuto alcuna notizia di suo figlio. Questo sventurato padre
piangeva a calde lacrime parlandomi, e mi pareva talmente afflitto, che
non potei resistere al suo dolore. Non mi fu possibile di osservare più
oltre il giuramento dato al Principe mio cugino, e raccontai al Re ciò
che io sapeva.
Il Re mi ascoltò con qualche considerazione,
e quando ebbi terminato, mi disse:
— Nipote, il racconto fattomi mi dà qualche
speranza: io seppi che mio figlio faceva fabbricare questo
sepolcro, e conosco presso a poco il luogo.
Con l’idea che ve n’è restata mi lusingo che lo troveremo.
Entrambi ci travestimmo ed uscimmo per una
porta del giardino che dava alla campagna. Io riconobbi il sepolcro.
Entrati trovammo la botola di ferro chiusa
sull’ingresso della scala. Durammo molta fatica per alzarla, avendola il
Principe mio cugino assicurata al di dentro col gesso e l’acqua di cui
vi ho parlato, ma infine l’alzammo. Il Re mio zio scese il primo.
Quando fummo al basso della scala,
ci trovammo in una specie di anticamera piena d’un densissimo fumo di
cattivo odore. Da quest’anticamera passammo in un’altra stanza
grandissima sostenuta da grosse colonne e rischiarata da molti lumi.
Nel mezzo eravi una cisterna, e da un lato si
vedevano situate molte provvigioni. Vi era dirimpetto un sofà molto
elevato, dove vi si saliva per alcuni gradini ed al di sopra vedeasi un
largo letto colle cortine serrate.
Il Re vi salì; e avendole sollevate, scoperse
il Principe suo figlio, e la donna insieme coricati, ma arsi e mutati in
carbone.
Ciò che vieppiù mi fe’ stupire fu, che
all’orribile spettacolo il Re mio zio, invece di mostrare la sua
afflizione, vedendo suo figlio in quello stato sì spaventevole gli sputò
in faccia, dicendogli sdegnato:
— Ecco il castigo di questo mondo: ma quello
dell’altro durerà in eterno!
— Sire — gli dissi — per quanto dolore mi
abbia cagionato tal funesto avvenimento, non posso tenermi di domandare
a Vostra Maestà qual delitto abbia potuto commettere il Principe mio
cugino, per meritare che voi ne trattiate così il cadavere?
— Nipote mio — rispose il Re — vi dirò che
mio figlio, indegno di portare questo nome, amò sua sorella fin dai
primi anni, ed ella lo amò del pari. Questa tenerezza con l’età
aumentatasi pervenne a tale, che alfine ne temetti la conseguenza.
Apprestai il rimedio che mi fu possibile, né mi contentai di fare in
disparte a mio figlio una riprensione, rappresentandogli l’errore della
passione contratta, e l’onta di cui andava a coprire la sua famiglia se
persisteva in sentimenti sì criminosi; dissi ancora lo stesso a mia
figlia, che custodii in modo da non aver più comunicazione col fratello.
Mio figlio, persuaso che sua sorella era
sempre la stessa per lui, sotto
pretesto di fabbricare un sepolcro, fece preparare questo asilo
sotterraneo, colla speranza di trovare un giorno l’occasione di rapire
il colpevole oggetto della sua fiamma e condurlo qui.
Terminate queste parole si sciolse in pianto;
uscimmo infine da quel luogo funesto. Non era molto che eravamo tornati
a Palazzo, quando ascoltammo un confuso rumore di trombette, di
timballi, di tamburi ed altri strumenti da guerra. Era lo stesso Visir
il quale, deposto dal trono mio padre ed usurpato i suoi Stati, veniva
ad impadronirsi ancora di quelli di mio zio, con innumerevoli schiere di
soldati.
Mio zio, avendo soltanto l’ordinaria sua
guardia, non poté resistere a tanti nemici.
Oppresso dal dolore, perseguitato dalla
fortuna, mi appigliai ad uno strattagemma, il solo partito che mi
restasse per salvarmi la vita: mi feci radere la barba e le
sopracciglia, e preso l’abito di Calender, uscii dalla città senza
essere riconosciuto da alcuno.
Infine, dopo il viaggio di molti mesi, sono
giunto oggi alla porta di questa città; vi sono entrato al cader del
giorno, ed essendomi un poco arrestato per rinfrancare le mie forze,
quest’altro Calender, che vedete vicino a me, vi giunse come viaggiatore
anch’egli: a vicenda ci salutammo.
— Al vedervi — gli dissi — sembrate straniero
come me; ed egli mi rispose che non m’ingannava.
In quel momento sopravvenne questo terzo
Calender. Ci avete ricevuti con tanta carità e bontà, che noi non
possiamo ringraziarvi abbastanza.
— Basta — disse Zobeida — siamo contenti:
ritiratevi dove vi piace.
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