STORIA DI NOUREDDIN ALÌ E DI BEDREDDIN HASSAN
Eravi un tempo in Egitto un Sultano, grande
osservatore della giustizia. Il Visir di quel Sultano avea due figli: il
primogenito si chiamava Schemseddin Mohammed, e il cadetto Noureddin
Alì. Il Visir loro padre essendo morto, il Sultano li mandò a cercare, e
avendoli fatti rivestire entrambi di una veste di Visir:
— Io son ben dispiacente — disse loro — della
perdita che testé avete fatta, e non ne sono men tocco di voi; come so
che abitate insieme e siete perfettamente uniti, vi gratifico entrambi
della stessa dignità. Andate, e imitate vostro padre.
I due nuovi Visir ringraziarono il Sultano
della sua bontà, e si ritirarono a casa loro, ove presero cura de’
funerali del proprio padre.
Un giorno mentre s’intrattenevano di cose
indifferenti, ed era la vigilia di una caccia, in cui il primogenito
doveva accompagnare il Sultano, questo giovane disse al fratello minore:
— Fratel mio,
dappoiché non siamo ancora ammogliati e viviamo in sì buona armonia, mi
è venuto un pensiero: sposiamo in uno stesso giorno due sorelle da
scegliere in qualche famiglia a modo. E supposto che le nostre mogli
concepiscano la prima notte delle nostre nozze e poscia si sgravino lo
stesso giorno, la
vostra di un figlio e
la mia di un figlio, li mariteremo insieme.
— Benissimo, — rispose il cadetto — vi
acconsento: solo bramerei sapere se pretendereste che mio figlio dovesse
dare una dote a vostra figlia?
— Naturalmente — soggiunse il primogenito.
— E in questo non andiam d’accordo — replicò
il cadetto — il maschio essendo più nobile della femmina spetterebbe a
voi il dare una buona dote a vostra figlia.
Simile bizzarra quistione sorta fra due
fratelli, non lasciò di procedere molto innanzi e Schemseddin Mohammed
s’infuriò al punto di arrivare alle minacce.
— Se domani — disse — non dovessi andare ad
accompagnare il Sultano a caccia vi tratterei come meritate: ma al mio
ritorno ne riparleremo, state tranquillo.
L’indomani si alzò per tempo e si recò dal
Sultano.
In quanto a Noureddin Alì, dopo aver passata
una notte agitatissima, vedendo non esser più possibile continuare a
vivere con un fratello, il quale lo trattava con tanta alterigia, fece
preparare una mula, si provvide di denaro, di pietre preziose e di
viveri, e partì.
Appena fu uscito dal Cairo prese la via del
deserto: senonché la sua mula essendo morta, gli convenne andare a
piedi.
Per fortuna lo incontrò un corriere che
andava a Bassora, il quale presolo in groppa lo trasportò fin là.
Mentre Noureddin Alì cercava in quella città
un alloggio, vide venire il Visir del Sultano di Bassora, accompagnato
da numeroso seguito.
Quel ministro, si fermò per domandargli chi
fosse e donde venisse.
— Signore — rispose Noureddin Alì — sono
egiziano nato al Cairo ed ho abbandonato la mia patria per un giusto
motivo, colla ferma risoluzione di non tornarvi mai più.
— Seguitemi — riprese il Visir — venite meco,
e forse vi farò dimenticare chi v’ha costretto ad abbandonare il vostro
paese.
Appena il Visir ebbe conosciute le belle
qualità di Noureddin Alì, gli pose affezione e un giorno gli disse:
— Figliuol mio, io sono come vedete in una
età molto avanzata, vi voglio bene, ho una figlia che idolatro, la quale
è altrettanto bella quanto voi siete ben fatto; la volete? io son
disposto a darvela.
Appena il gran Visir di Bassora ebbe finito
simile discorso pieno di bontà, e di generosità, Noureddin Alì si gettò
a’ suoi piedi, e gli disse esser dispostissimo a fare quanto gli
proponeva.
Allora il gran Visir chiamò i principali
ufficiali di sua casa, ordinò loro di fare addobbare la gran sala del
suo castello e preparare un gran pranzo.
Appena i signori radunati in casa del gran
Visir di Bassora ebbero attestato a quel ministro la gioia, che
prendevano per quel matrimonio di sua figlia con Noureddin Alì, tutti si
posero a tavola.
Sul finire del pranzo furono recati dei
confetti, dei quali ciascuno prese secondo l’usanza quel tanto che
potette portar via, poscia entrarono i cadì col contratto di matrimonio
alla mano. Lo sottoscrissero i principali signori; dopo la qual cosa
tutta la compagnia si ritirò.
Ciò che vi ha di notevole — continuò il visir
Giafar — gli è che nello stesso giorno in cui queste nozze facevansi a
Bassora, Schemseddin Mohammed ammogliavasi al Cairo; ed ecco i
particolari del suo matrimonio.
Dopo che Noureddin Alì si fu allontanato dal
Cairo coll’intenzione di non più ritornarvi, Schemseddin Mohammed, il
primogenito, che era andato a caccia col Sultano di Egitto, essendo di
ritorno a capo di un mese, corse all’appartamento di Noureddin Alì, ma
rimase meravigliato nel sentire che egli era partito sopra una mula il
giorno stesso della caccia del Sultano, e che dopo quel tempo non era
più comparso.
Egli spedì un corriere
il quale passò per Damasco ed andò fino ad Aleppo: ma Noureddin era
allora a Bassora.
Quando il corriere al suo ritorno ebbe
riferito che non ne avea saputo novella alcuna, Schemseddin si propose
di mandarlo a cercare altrove, e intanto fece la risoluzione di
ammogliarsi, sposò la figliuola di uno dei più potenti signori del
Cairo, nello stesso giorno in cui suo fratello si ammogliava colla
figlia del gran Visir di Bassora.
A capo di nove mesi la moglie di Schemseddin
Mohammed si sgravò di una figlia al Cairo, e nello stesso giorno quella
di Noureddin diede alla luce un bel maschietto, che fu chiamato
Bedreddin Hassan.
Il gran Visir di Bassora manifestò la sua
gioia con grandi elargizioni. Indi,
per dimostrare a suo genero quanto era contento di lui, andò al palagio
a supplicare umilissimamente il Sultano perché accordasse a Noureddin
Alì la sopravvivenza della sua carica.
Il Sultano accordò la grazia domandata per
lui con tutto l’atteggiamento immaginabile.
La gioia del suocero l’indomani fu al colmo,
quando si vide suo genero presente al Consiglio in sua vece a fare
funzioni da gran Visir. Quel buon vecchio morì quattro anni dopo.
Noureddin Alì gli rese gli ultimi uffici con
tutta l’amicizia e la riconoscenza possibile: e tosto che Bedreddin
Hassan suo figlio fu giunto all’età di sette anni, lo pose fra le mani
di un maestro eccellente, onde lo educasse in modo degno della sua
nascita.
Siccome suo padre si proponeva di renderlo
capace di occupare un dì il suo posto, non risparmiò nulla a questo
fine, e lo fece entrare nei più difficili affari, affine di avvezzarvelo
di buon’ora.
Finalmente e’ non trascurava alcuna cosa pel
buon avviamento di un figlio il quale gli era sì caro, e cominciava già
a godere del frutto dei suoi sforzi, quando fu assalito da una malattia
all’improvviso, di cui fu tale la violenza, che ei comprese benissimo
non essere lontano dallo estremo de’ giorni suoi. Però non si illuse, e
tosto si dispose a morire da vero mussulmano.
In quel momento prezioso non dimenticò suo
figlio Bedreddin: ei lo fece chiamare e gli disse:
— Figliuol mio. Io son nato in Egitto; mio
padre, vostro avolo, era primo ministro del Sultano del Regno. Ma voi
conoscerete più ampiamente tutte queste cose che ho scritte su questo
quaderno. — Nel tempo istesso Noureddin Alì gli diede il quaderno
scritto di suo proprio pugno: — Prendete — gli disse — lo leggerete a
vostro agio: ivi troverete fra le altre cose il giorno del mio
matrimonio e quello della vostra nascita.
Bedreddin Hassan, sensibilmente afflitto di
veder suo padre nello stato in cui era, mosso da’ suoi discorsi,
ricevette piangendo il quaderno, promettendogli di non mai disfarsene.
Finalmente Noureddin Alì continuò sino
all’ultimo momento di sua vita a dare buoni consigli a suo figlio: e
quando fu morto gli si fecero magnifiche esequie.
Bedreddin Hassan di Bassora (così fu
soprannominato, perocché era nato in quella città), ebbe un
inconcepibile dolore della morte di suo
padre. Invece di passare un mese, secondo il costume, ei ne passò due in
lacrime, senza vedere alcuno, e senza neppure uscire per rendere i suoi
doveri al Sultano di Bassora, il quale sdegnato di questa negligenza, e
riguardandola come segno di disprezzo per la sua Corte e per la sua
persona, si lasciò trasportare dall’ira.
Nel suo furore ei fece chiamare il
suo nuovo gran Visir (poiché ne aveva fatto uno appena saputa la morte
di Noureddin Alì), e gli ordinò di recarsi alla casa del defunto e di
confiscarla con tutte le altre sue case, terre e beni, senza lasciar
nulla a Bedreddin Hassan, del quale comandò pure che s’impadronissero.
Uno degli schiavi di Bedreddin Hassan, ch’era
a caso fra la folla, tosto ch’ebbe saputo il disegno del Visir, corse a
rendere consapevole il suo padrone.
— Signore — gli disse — non v’ha tempo a
perdere. Il Sultano è terribilmente in collera contro di voi e vengono
da parte sua a confiscare ciò che voi possedete e anche ad impadronirsi
della vostra persona.
Bedreddin si levò tosto dal sofà dov’era, e
dopo essersi coperta la testa con un gherone della sua veste per
nascondersi il viso, se ne fuggì senza sapere da qual lato volgere i
suoi passi, per evitare il pericolo che lo minacciava. Il primo pensiero
che gli venne fu di correre in fretta per giungere alla porta più vicina
della città. Corse senza fermarsi fino al pubblico cimitero, e siccome
la notte s’appressava, risolvette di andarla a passare nella tomba di
suo padre; ma egli trovò per via un ebreo ricchissimo, banchiere e
mercante di professione.
Chiamavasi Isacco, dopo aver salutato
Bedreddin Hassan e avergli baciata la mano, gli disse:
— Signore, oserò io prendermi la libertà di
domandarvi ove andate a quest’ora, solo a quanto pare, e un poco
agitato?
— Sì — rispose Bedreddin — mi son poc’anzi
addormentato e nel mio sonno m’è apparso mio padre. Aveva terribile lo
sguardo, come se fosse stato irritato contro di me. Mi sono riscosso dal
sonno all’improvviso, e, pieno di spavento, sono tosto partito per
venire a far la mia preghiera sulla sua tomba.
— Signore — ripigliò l’ebreo — siccome il
gran Visir vostro padre avea caricati di mercanzie parecchi vascelli
tuttora in mare e che vi appartengono, vi supplico di accordarmi la
preferenza su di ogni altro mercante. Io sono in istato di comprare a
denaro contante il carico di tutti i
vostri vascelli, e per incominciare, se vi piace cedermi quello del
primo che giungerà a buon porto, io vi conterò al momento mille
zecchini.
Bedreddin Hassan, nello stato in cui era,
cacciato di casa sua e spogliato di quanto aveva al mondo, riguardò la
proposizione dell’ebreo come un favore del Cielo. Non esitò ad
accettarla con gioia.
L’ebreo tosto gli pose
nelle mani la borsa di mille zecchini, offrendosi di contarli, ma
Bedreddin gliene risparmiò la pena, dicendogli ch’ei se ne stava alla
sua fede.
Quand’è così — ripigliò l’ebreo — abbiate la
bontà signore, di farmi una riga di scritto del contratto che ora
abbiamo fatto.
Ciò dicendo trasse il suo calamaio, che
portava alla cintura, e dopo aver preso una piccola canna ben temperata
per iscrivere, gliela presentò con un pezzo di carta, e mentre ei teneva
in mano il calamaio, Bedreddin Hassan scrisse queste parole:
«Questo scritto è per
render testimonianza che Bedreddin Hassan di Bassora ha venduto
all’ebreo Isacco, per la somma di mille zecchini, già ricevuti, il
carico del primo de’ suoi navigli che approderà in questo Porto.
bedreddin hassan di
Bassora.»
Dopo
aver fatto questo, lo diede all’ebreo il quale lo pose nel suo
portafogli e prese in seguito da lui commiato.
Mentre Isacco continuò il suo cammino verso
la città, Bedreddin Hassan continuò il suo, verso la tomba di suo padre
Noureddin Alì.
Nel giungervi, ci si prosternò bocconi. Restò
lungo tempo in tali ambascie: ma finalmente si levò, e avendo appoggiata
la testa sul sepolcro di suo padre, i suoi dolori si rinnovarono con
maggior violenza di prima, e non cessò di sospirare e di piangere fino a
che, soccombendo al sonno, s’addormentò. Ei gustava appena la dolcezza
del riposo, quando un Genio il quale aveva stabilito la sua dimora in
quel cimitero, scorse quel giovane nella tomba di Noureddin Alì. Egli vi
entrò, e siccome Bedreddin era coricato supino, rimase meravigliato
dallo splendore della sua bellezza!
Finalmente, dopo averlo ben riguardato, si
alzò ben alto nell’aria, dove per caso scontrò una Fata. Salutaronsi
l’un l’altro, e quindi ei le disse:
— Vi prego di scendere con me fino al
cimitero, e vi farò vedere un
prestigio di beltà: la Fata vi acconsentì.
Quando furono nella tomba il Genio disse alla
Fata, mostrandole Bedreddin Hassan:
— Ebbene, avete mai visto un giovine più
bello di questo?
La Fata esaminò Bedreddin con attenzione, e
poi volgendosi verso il Genio, rispose:
— Vi confesso ch’è molto ben fatto: ma ho pur
ora veduto al Cairo un oggetto ancor più meraviglioso intorno al quale
vi dirò alcun che, se volete ascoltarmi.
— Bisogna adunque che sappiate — riprese la
Fata — che il Sultano d’Egitto ha un Visir chiamato Schemseddin
Mohammed, il quale ha una figlia dell’età di circa venti anni. Ell’è la
più bella e la più perfetta persona di cui siasi mai udito parlare. Il
Sultano, informato della voce pubblica della beltà di questa giovinetta,
fece chiamare il visir suo padre in uno di questi ultimi giorni, e gli
disse:
— Ho saputo che avete una figlia da maritare;
desidero di sposarla, volete accordarmela?
Il Visir, che non si aspettava una simile
proposta, invece di accettarla con gioia, rispose al Sultano:
— Sire, io non sono degno dell’onore che
Vostra Maestà vuol impartirmi e la supplico umilissimamente di non
prendere in mala parte se io mi oppongo al suo disegno. Voi sapete ch’io
aveva un fratello chiamato Noureddin Alì, che aveva, come me, l’onore di
essere uno dei vostri Visir. Avemmo insieme una disputa, la quale fu
cagione ch’ei sparisse d’improvviso; se non che ho saputo, or fa quattro
giorni, esser egli morto a Bassora nella dignità di gran Visir del
Sultano di quel Regno. Egli ha lasciato un figlio, e siccome tempo fa ci
promettemmo a vicenda di sposare insieme i nostri figli, dal canto mio
vorrei adempiere la mia promessa e scongiuro Vostra Maestà di
permetterlo.
Il Sultano d’Egitto fu irritato all’ultimo
segno contro Schemseddin Mohammed, e così gli disse con un trasporto
d’ira:
— Adunque così rispondete alla bontà che ho
di volermi abbassare fino ad imparentarmi con voi? Saprò vendicarmi
della preferenza che su di me osate dare ad un altro, e giuro che vostra
figlia non avrà altro marito fuorché il più vile e il più deforme di
tutti i miei schiavi. — Terminando queste parole, vi
rimandò bruscamente il Visir, il quale si
ritirò in casa pieno di confusione, e crudelmente mortificato.
Oggi il Sultano ha fatto venire uno de’ suoi
palafrenieri gobbo dinanzi e di dietro e brutto da far paura, e dopo
avere ordinato a Schemseddin Mohammed di acconsentire al matrimonio di
sua figlia con questo orribile schiavo, ha fatto stendere e
sottoscrivere il contratto dai testimoni in sua presenza; i preparativi
di queste note bizzarre sono finiti, e nel punto ch’io vi parlo tutti
gli schiavi dei signori della Corte d’Egitto stanno alla porta
aspettando il gobbo palafreniere, per condurlo dalla sua sposa, la quale
dal canto suo è già pettinata e abbigliata.
Dopo aver la Fata e il Genio insieme
concertato quanto volevano fare, il Genio portò via dolcemente Bedreddin,
e trasportandolo per aria, andò a posarlo alla porta d’un albergo
pubblico, e prossimo al bagno d’onde il gobbo era in procinto di uscire
col seguito degli schiavi che attendevano.
Bedreddin Hassan,
essendosi svegliato, fu molto sorpreso di vedersi in mezzo ad una città
a lui ignota; volle gridare per domandare ove era: ma il Genio gli dette
un colpetto sulla spalla avvertendolo di non dir parola alcuna. Poi,
mettendogli una fiaccola in mano, gli disse:
— Andate, mischiatevi
fra quella gente che vedete alla porta di quel bagno, e camminate con
loro fino a che non siete entrato in una sala ove si stanno per
celebrare delle nozze. Il novello sposo è un gobbo, cui riconoscerete di
leggieri. Mettetevi alla sua dritta nell’entrare, e fin d’ora aprite la
vostra borsa degli zecchini e distribuiteli ai suonatori ai ballerini e
alle danzatrici per via.
Quando sarete nella sala non tralasciate di
darne eziandio alle schiave che vedrete intorno alla sposa; ogni
qualvolta metterete la mano nella borsa, cavatela piena di zecchini, e
non risparmiateli punto. Fate esattamente quanto io vi dico e non
maravigliatevi di nulla.
Il giovane Bedreddin, istruito di quanto
dovea fare s’avanzò verso la porta del bagno, e accese la fiaccola a
quella d’uno schiavo e mischiandosi poscia con gli altri s’incamminò con
loro.
Bedreddin Hassan, trovandosi presso ai
suonatori, ballerini e ballerine, che camminavano immediatamente innanzi
al gobbo, cavava di tempo in tempo [151]
dalla sua borsa delle manate di
zecchini che distribuiva loro.
Si giunse alla fine alla porta del Visir
Schemseddin Mohammed zio di Bedreddin Hassan.
Degli uscieri, per impedire la confusione,
fermarono tutti gli schiavi che portavano delle fiaccole, e non vollero
lasciarli entrare. Respinsero ancora Bedreddin Hassan: ma i suonatori, i
quali ebbero libero l’ingresso, si arrestarono protestando che non
entrerebbero, se con loro non lo lasciassero entrare.
— Egli non è del numero degli schiavi —
dicevano — basta guardarlo, per convincersene.
Ciò dicendo, se lo posero in mezzo e lo
fecero entrare, malgrado il divieto degli uscieri. Gli levarono la sua
fiaccola, e dopo averlo introdotto nella sala, lo collocarono a destra
del gobbo, il quale si assise presso la figlia del Visir, su di un trono
magnificamente ornato.
La sposa era parata di tutti i suoi
ornamenti: ma sul suo volto si scorgeva un languore o meglio una
tristezza mortale di cui non era difficile indovinare la causa, vedendo
a lei vicino un marito sì deforme.
La diversità tra Bedreddin Hassan e il
palafreniere gobbo, la cui figura metteva orrore, eccitò dei mormorii
nell’adunanza.
— A questo bel giovane — esclamarono le dame
— bisogna dare la nostra sposa, e non a cotesto gobbo deforme!
Né qui si rimasero: osarono lanciare delle
imprecazioni contro il Sultano, il quale abusando del suo potere
assoluto univa la bruttezza alla beltà, colmarono anche d’ingiurie il
gobbo, e fecero sì ch’ei si trovasse molto confuso, con sommo piacere
degli astanti, le cui fischiate interruppero per qualche tempo la
sinfonia nella sala.
Finita la cerimonia, cessarono di suonare e
si ritirarono, facendo segno a Bedreddin di restare. Le dame fecero lo
stesso, ritirandosi dopo di loro con tutti quelli che non erano di casa.
La sposa entrò in un gabinetto ove le sue donne la seguirono per
spogliarla, e non restò più nella sala se non il gobbo palafreniere,
Bedreddin Hassan e alcuni domestici. Il gobbo, il quale l’aveva
terribilmente con Bedreddin, lo guardò bieco e gli disse:
— E tu, che aspetti? Perché non ti ritiri
come gli altri? Va via!
Siccome Bedreddin non aveva alcun pretesto
per rimanersene colà, uscissene molto
imbarazzato: ma appena fu giunto fuori del vestibolo, si presentarono a
lui il Genio e la Fata fermandolo:
— Ove andate? — gli disse il Genio — restate:
il gobbo non è più nella sala, egli è uscito per qualche bisogno; avete
solo da rientrare colà ed introdurvi nella camera della sposa. Quando
sarete solo con lei ditele arditamente esser voi suo marito; poiché
l’intenzione del Sultano è stata solo quella di divertirsi col gobbo.
Mentre il Genio incoraggiava in questo modo
Bedreddin e l’istruiva intorno al da farsi, il gobbo era veramente
uscito dalla sala. Il Genio s’introdusse ove egli stava, prese la figura
di un grosso gatto nero, e si pose a miagolare in modo spaventevole.
Il gobbo gridò dietro al gatto e batté colle
mani per farlo fuggire: ma il gatto invece di ritirarsi, si tenne duro
sulle zampe, fece brillare degli occhi di bragia e guardò ferocemente il
gobbo miagolando più forte di prima e facendosi grande in modo da
sembrar grosso come un asinello. Per non dargli requie alcuna il Genio
si cangiò all’istante in un possente bufalo, e sotto cotesta forma gli
gridò con voce tuonante:
— Gobbo villano!
A queste parole lo spaventato palafreniere si
lasciò cadere sul pavimento, e gli rispose tremando:
— Principe supremo dei bufali, che chiedete
da me?
— Guai a te — gli rispose il Genio — se tu
hai la temerità di osare ammogliarti colla mia ganza!
— Ah! signore — disse il gobbo — vi supplico
di perdonarmi, io non sapeva che questa dama aveva un bufalo per amante.
Comandatemi, io son pronto ad obbedirvi.
— Per la morte! — replicò il Genio — se tu
esci di qui, e se non osservi il silenzio fino a che sorga il Sole, io
ti schiaccio la testa. Fatto giorno, ti permetto di uscir da questa
casa: ma ti ordino di ritirarti prestissimo, senza guardarti dietro.
Terminando queste parole il Genio si
trasformò in uomo; prese il gobbo pe’ piedi, e dopo averlo alzato con la
testa in giù contro il muro soggiunse:
— Se tu ti muovi prima dello spuntar del
sole, come ti ho già detto, ti frantumerò il capo in mille pezzi contro
questo muro!
Quanto a Bedreddin Hassan, incoraggiato dal
Genio e dalla presenza della Fata, era ritornato nella
sala e s’era insinuato nella camera nuziale,
ove si assise attendendo l’esito della sua avventura. A capo di qualche
tempo giunse la sposa e fu estremamente sorpresa di vedere in luogo del
gobbo, Bedreddin Hassan.
— E che! mio caro amico — gli disse — voi
siete qui a quest’ora? Siete dunque camerata di mio marito?
— Egli, o signora, vostro sposo? E potete
rimaner sì lungo tempo in tal pensiero? Uscite d’inganno. Tante bellezze
non saranno sacrificate al più spregevole di tutti gli uomini. Son io,
signora, son io il più felice mortale a cui sono riservate. Il Sultano
ha voluto divertirsi facendo questa soverchieria al Visir vostro padre,
ed egli mi ha scelto per vostro sposo.
A questo discorso la figlia del Visir la
quale era entrata più morta che viva nella camera nuziale, si cangiò in
volto.
— Non m’aspettava — gli disse — una sì grata
sorpresa. Ma io sono tanto più felice, inquantoché possederò un uomo
degno della mia tenerezza.
Ciò dicendo, ella finì di spogliarsi e si
pose a letto.
Dal canto suo, Bedreddin Hassan, fuor di sé
per vedersi possessore di sì incantevoli bellezze, si spogliò
prontamente.
Pose il suo abito su di un seggio, si tolse
il turbante, per mettersene uno da notte, che era stato preparato pel
gobbo, e andò a coricarsi in camicia e in mutande. Le mutande erano di
raso azzurro e legate con un cordone tessuto di oro.
Quando i due amanti si furono addormentati,
il Genio che aveva raggiunto la Fata, le disse esser tempo di finire ciò
che essi avevano sì ben cominciato.
— Non lasciamoci sorprendere — soggiunse —
dal giorno che apparirà bentosto; andate a portare via il giovane senza
svegliarlo.
La Fata si recò nella camera degli amanti i
quali dormivano: portò via Bedreddin Hassan, e volando col Genio con
meravigliosa rapidità fino alla porta di Damasco in Siria vi giunsero
precisamente nel tempo in cui i ministri delle moschee, chiamavano il
popolo alla preghiera dello spuntar del giorno.
La Fata posò
dolcemente a terra Bedreddin, e lasciandolo presso alla porta,
s’allontanò insieme col Genio.
Si apriron le porte della città, e la gente
fu estremamente sorpresa di veder Bedreddin Hassan steso per terra, in
camicia e in mutande.
Furono tutti talmente stupiti che posero un
grido il quale svegliò il giovane.
Non fu minore la sua sorpresa nel vedersi
alla porta di una città dove non era mai venuto, e circondato da una
calca di gente che lo considerava con attenzione.
— Signori — disse loro — ditemi di grazia ove
sono e che desiderate da me?
Uno fra essi prese la parola e gli rispose:
— Giovane, or ora si è aperta la porta di
questa città, e nell’uscire vi abbiamo trovato qui coricato nello stato
in cui siete. Ci siamo fermati a guardarvi. Avete dunque passato qui la
notte? Non sapete di trovarvi a una delle porte di Damasco?
— A una delle porte di Damasco!! — replicò
Bedreddin — voi vi burlate di me. Questa notte nel coricarmi io stava al
Cairo.
Appena ebbe terminato queste parole, tutti
scoppiarono dalle risa, esclamando:
— È pazzo! è pazzo!
A tali grida gli uni sporsero il capo dalle
finestre, gli altri si presentarono sulle loro porte, ed altri, unendosi
a quelli che attorniavano Bedreddin, gridavan com’essi, senza saper di
che si trattasse:
— È un pazzo!
Nell’impaccio in cui trovavasi quel giovane,
giunse innanzi alla casa di un pasticciere, il quale apriva allora la
bottega e vi entrò dentro per togliersi alle fischiate del popolo.
Quel pasticciere volle sapere che fosse ed il
motivo che l’aveva condotto a Damasco.
Bedreddin Hassan non gli nascose nulla.
— La vostra storia è delle più sorprendenti —
gli disse il pasticciere — ma se volete seguire il mio consiglio non
confiderete ad alcuno le cose dette a me, attendendo pazientemente che
il cielo si degni por fine alle disgrazie delle quali siete afflitto. Vi
contenterete di rimaner con me fino a tal punto; siccome non ho
figliuoli, son pronto a riconoscervi per mio figlio, se acconsentite.
Bedreddin non lasciò di accettare la proposta
del pasticciere, stimando a buon diritto esser quello il miglior partito
da prendere.
Il pasticciere lo fece vestire, prese dei
testimoni, e andò a dichiarare innanzi ad un cadì che lo riconosceva per
suo figlio, in seguito di che Bedreddin restò
in casa sotto il semplice nome di Hassan, e
apprese l’arte del pasticciere.
Mentre ciò avveniva a Damasco, la figlia di
Schemseddin Mohammed si risvegliò e non trovando Bedreddin accanto a
lei, credette ch’egli si fosse alzato senza voler interrompere il suo
riposo.
Ella attendeva il suo ritorno, allorché il
Visir Schemseddin Mohammed suo padre, punto sul vivo dell’affronto che
credeva aver ricevuto dal Sultano di Egitto, venne a bussare
all’appartamento di lei, risoluto di piangere con essa il suo tristo
destino. La chiamò per nome: ed ella, appena ebbe inteso la sua voce, si
levò per aprirgli la porta. Gli baciò la mano, e lo ricevette con
un’aria sì contenta, che il Visir, il quale s’aspettava di trovarla
bagnata di lagrime ed afflitta come lui, ne rimase estremamente
sorpreso.
— Sciagurata! — le disse adirato — così
dunque mi comparisci dinanzi? Dopo l’orribile sacrificio testé
consumato, puoi tu presentarmi un volto così ilare?
— Signore, di grazia, non mi fate un così
ingiusto rimprovero; non è il gobbo ch’io detesto più della morte, non è
già cotesto mostro ch’io ho sposato: tutti lo han messo in tanta
confusione ch’egli è stato costretto di andarsi a nascondere e a dar
luogo a un giovane bellissimo ch’è il mio vero marito.
«Non ho più visto il gobbo, ma solo il caro
sposo di cui vi parlo, e che non dev’essere lungi di qui.
Schemseddin Mohammed uscì per andarlo a
cercare, ma invece di trovarlo rimase estremamente sorpreso d’incontrare
il gobbo che aveva la testa in giù e i piedi in alto.
— Che vuol dir ciò? — gli disse — chi vi ha
messo in tale stato? Levatevi di lì, e mettetevi sui vostri piedi.
— Me ne guarderò bene — soggiunse il gobbo. —
Sappiate che essendo venuto qui ieri sera, apparve all’improvviso
innanzi a me un gatto nero, il quale si trasformò sensibilmente in un
grosso buffalo; non ho già dimenticato quel che mi ha detto; perciò
andate pei fatti vostri e lasciatemi qui.
Il Visir, invece di ritirarsi, prese il gobbo
pei piedi e l’obbligò a rialzarsi.
Dopo ciò il gobbo uscì di tutta lena senza
guardarsi indietro.
Schemseddin Mohammed ritornò nella camera di
sua figlia più stupito e più incerto di prima.
— Ebbene, figlia, — le disse — potete voi
chiarirmi di un’avventura che mi rende interdetto e confuso?
— Signore — gli rispose — non posso dirvi
altro, fuorché quello che ho già riferito. Ma ecco — aggiunse — il
vestito del mio sposo, esso forse vi darà gli schiarimenti che cercate.
— Dicendo queste parole, presentò il turbante di Bedreddin al Visir, il
quale lo prese, e dopo averlo ben bene esaminato da tutte le parti:
— Lo prenderei — disse — per un turbante di
Visir, se non fosse alla foggia di Mussul.
Ma avvedendosi esservi qualche cosa cucito
tra la stoffa e il soppanno, chiese delle forbici, e avendo scucito,
trovò una carta piegata. Era il quaderno dato da Noureddin Alì morente a
Bedreddin suo figliuolo. Schemseddin Mohammed, avendo aperto il
quaderno, riconobbe il carattere di suo fratello Noureddin Alì, a questo
titolo: «Per voi figlio Bedreddin Hassan.»
Prima di poter fare le sue riflessioni, sua
figlia gli mise nelle mani la borsa che aveva ritrovata sotto l’abito.
Egli l’aprì pure, e quella era piena di zecchini, come ho già detto,
poiché nonostante le larghezze fatte da Bedreddin Hassan, era sempre
rimasta piena per cura del Genio e della Fata.
Il Visir Schemseddin Mohammed disse:
— Figliuola mia cotesto sposo, che ha passata
la notte con voi, è vostro cugino, il figliuolo di Noureddin Alì. I
mille zecchini, contenuti in questa borsa, mi fanno ricordar la disputa
avuta con quel caro fratello: egli è senza dubbio il regalo nuziale che
vi fa. Dio sia lodato di ogni cosa. — Guardò poscia lo scritto di suo
fratello, e più volte baciollo versando abbondanti lacrime.
Intanto il Visir non poteva comprendere
perché suo nipote fosse sparito: sperava vederselo comparire ad ogni
momento, e lo aspettava con una estrema impazienza per abbracciarlo.
Dopo averlo inutilmente aspettato per sette giorni, lo fece cercare in
tutto il Cairo, ma non ne seppe notizia alcuna. Ciò gli cagionò molta
inquietudine.
— Ecco — diceva — un’avventura ben singolare;
veruno giammai non ne ha esperimentata una simile.
Nell’incertezza di quel che potesse accader
in seguito, credette dover egli stesso mettere per scritto lo stato di
cose in cui trovavasi allora la sua casa, in qual maniera le nozze erano
seguite, come la sala e la camera di sua figlia fossero addobbate. Fece
pure un fagotto del turbante, della borsa e del resto del vestimento di
Bedreddin, e lo chiuse sotto chiave. In capo
a qualche settimana, la figliuola del Visir
Schemseddin Mohammed si accorse di essere gravida, ed infatti nel
termine di nove mesi ella partorì un figliuolo. Si diede una nutrice al
fanciullo, e suo avolo lo chiamò Agib. Quando questo giovane Agib ebbe
toccato l’età di sette anni, il visir Schemseddin Mohammed, invece di
fargli insegnare a leggere nella propria casa, lo mandò a scuola da un
maestro di grande riputazione, e due schiavi avevano cura di condurlo
ogni giorno. Agib giuocava coi suoi compagni; siccome erano tutti di una
condizione inferiore alla sua, essi avevano tutti molta deferenza per
lui, ed in ciò si regolavano sul maestro di scuola, il quale molte cose
gli passava che ad essi non perdonava. La cieca compiacenza usata verso
Agib lo perdette: divenne superbo, insolente; voleva che i suoi compagni
tutto soffrissero per lui, senza nulla voler soffrire da loro. Si
rendette insomma insopportabile a tutti gli scolari, i quali si
lamentavano di lui col maestro di scuola.
— Figliuoli miei —
disse a’ suoi scolari — vedo bene essere Agib un insolentello; voglio
insegnarvi un mezzo per mortificarlo, onde non vi tormenti più oltre.
Domani, quando sarà venuto e vorrete giuocar insieme, situatevi tutti
intorno a lui, e qualcheduno dica ad alta voce:
— Noi vogliamo giuocare, ma a patto che
quelli cui giuocheranno diranno il nome della loro madre e del loro
padre. Noi riguarderemo come bastardi gli altri, né soffriremo che essi
giuochino con noi. L’indomani non trascurarono di fare ciò che il
maestro aveva loro insegnato. Circondarono Agib, ed un di loro prendendo
la parola:
— Giuochiamo — disse — od un giuoco, ma a
patto che colui il quale non potrà dire il suo nome, il nome di sua
madre e di suo padre, non vi giuocherà. Risposero tutti di accettare la
condizione stabilita e vi soddisfecero l’uno dopo l’altro ed anche Agib.
— Mia madre, si chiama Dama di Bellezza, e
mio padre Schemseddin Mohammed, Visir del Sultano.
A queste parole, tutti i fanciulli gridarono:
— Che dite mai? Questo non è il nome di
vostro padre, ma bensì quello del vostro avo.
— Che Iddio vi confonda! — replicò egli in
collera. — Osereste voi dire che il visir Schemseddin Mohammed non è mio
padre?
Il maestro, che aveva ascoltato ogni cosa,
entrò in quel mentre, ed indirizzandosi a Agib:
— Agib — gli disse — non sapete voi ancora
che il visir Schemseddin Mohammed non è se non vostro avo, padre di
vostra madre Dama di Bellezza? Noi ignoriamo, come voi, il nome di
vostro padre. Sappiamo soltanto aver voluto il Sultano maritare vostra
madre con uno de’ suoi palafrenieri gobbo per giunta, ma essere stata
invece posseduta da un Genio. Ciò è per voi increscevole, e perciò
dovete apprendere a trattare i vostri compagni con minor fierezza di
quella con cui finora gli avete trattati.
Il piccino partì dalla scuola, e tornò alla
casa piangendo. Andò da principio all’appartamento di sua madre Dama di
Bellezza, la quale afflitta di vederlo sì malinconico, con premura
gliene domandò la cagione.
— In nome di Dio, o madre mia — diss’egli —
ditemi, se vi piace, chi è mio padre?
— Figliuol mio — rispose ella — vostro padre
è Schemseddin Mohammed, il quale vi abbraccia tutti i giorni.
— Voi non mi dite la verità — soggiunse egli
— non è mio padre, ma bensì il vostro. Ma io di qual padre son figlio?
A questa domanda inaspettata, Dama di
Bellezza, cominciò a spargere delle lacrime.
Mentre Dama di Bellezza piangeva da una parte
ed Agib dall’altra, Schemseddin entrò e volle sapere la cagione delle
loro afflizioni.
Dama di Bellezza gli manifestò la
mortificazione ricevuta da Agib alla scuola.
Questo racconto toccò vivamente il Visir, il
quale unì le sue alle loro lacrime, e giudicando che tutti tenessero dei
discorsi contro l’onore di sua figlia, si diè in preda alla
disperazione.
Tormentato da questo crudel pensiero andò al
Palazzo del Sultano, lo supplicò umilmente d’accordargli il permesso di
fare un viaggio nelle provincie del Levante, e propriamente a Bassora,
per andare a cercare suo nipote Bedreddin.
Il Sultano, mosso dalle pene del Visir,
approvò la sua risoluzione e gli permise d’eseguirla.
Schemseddin Mohammed non trovò parole
bastanti per ringraziarlo della bontà usatagli.
I preparativi della partenza furono fatti con
molta sollecitudine, e al terminar di quattro giorni egli partì,
accompagnato da sua figlia Dama di Bellezza e da Agib suo nipote.
Essi camminarono per diciannove giorni di
seguito senza mai fermarsi: ma il
vigesimo, essendo arrivati in una bellissima prateria poco distante
dalla porta di Damasco, si fermarono e fecero innalzare le loro tende
sul margine di un ruscello il quale attraversava la città, rendendo i
suoi dintorni piacevolissimi.
Dama di bellezza, volendo che suo figlio Agib
si divertisse, passeggiando in quella celebre città, ordinò all’eunuco
nero, il quale serviva come di guida a questo fanciullo, di condurvelo.
Agib, magnificamente vestito, si pose in
cammino con l’eunuco. Non appena entrati in città, Agib, bello come il
giorno, attirò su di lui gli sguardi di tutti.
L’eunuco ed il ragazzo
arrivarono per caso innanzi la bottega ove era Bedreddin Hassan, e là si
videro circondati da una sì gran folla, che furono obbligati ad
arrestarsi.
Il pasticciere, che aveva adottato Bedreddin
Hassan, essendo morto da alcuni anni, lo aveva lasciato erede della sua
bottega e di tutti gli altri suoi beni.
Bedreddin fissando gli occhi su Agib, sentì
immantinente tutto commuovere, senza saperne la cagione.
La forza del sangue operava sul padre, ed
interrompendo le sue occupazioni si avvicinò ad Agib, dicendogli in modi
lusinghieri:
— Mio piccolo signore, fatemi la grazia
d’entrare nella bottega per mangiarvi qualche cosa fatta dalle mie mani,
affinché io abbia il piacere di contemplarvi a mio agio.
Queste parole furon pronunciate con tanta
indicibile tenerezza, da commuovere il piccolo Agib, il quale rivolto
all’eunuco:
— Questo buon uomo — disse — ha un aspetto
che mi piace e mi parla in modo tanto affettuoso, che non posso
rifiutarmi dal fare quanto ei desidera.
Entriamo dunque da lui.
L’eunuco lasciando entrare Agib nella sua
bottega vi entrò egli pure.
Bedreddin Hassan provò immensa gioia nel
veder compiuto l’ardente suo desiderio, e rimettendosi al lavoro
interrotto:
— Io faceva — disse — delle torte di fior di
latte; fa d’uopo che ne mangiate; sono certo che le troverete
eccellenti.
Ciò detto ne cavò dal forno una e dopo avervi
messo sopra dei granelli di melagrana e zucchero, la servì innanzi ad
Agib il quale trovolla deliziosa.
Preparavasi a far delle domande al piccolo
Agib sullo scopo del suo viaggio a Damasco, ma non poté soddisfare la
sua curiosità; imperocché l’eunuco lo condusse via appena ebbe finito di
mangiare.
Bedreddin Hassan corse
appresso ad Agib e all’eunuco e li raggiunse prima che avessero
oltrepassata la città.
Agib temeva che il
Visir suo avo non venisse a sapere esser entrato nella bottega di un
pasticciere e di avervi mangiato. Spinto da questo timore, raccolse una
gran pietra che era a’ suoi piedi, e lanciandogliela contro lo colpì nel
mezzo della fronte, inondandogli il viso di sangue.
Bedreddin ripigliò il cammino della città,
tergendosi il sangue della ferita col grembiale di cui non erasi nemmeno
sbarazzato.
— Ho fatto male — dicea tra sé — di
abbandonar la mia bottega, per cagionar tanta pena a quel ragazzo, che
certamente m’ha trattato in tal modo, credendo che io meditassi qualche
sinistro disegno a suo danno.
Come fu giunto a casa si fece medicare, e
consolossi dell’avvenuto, riflettendo vivere sulla terra gente più
disgraziata di lui.
Bedreddin continuò ad esercitare il suo
mestiere a Damasco donde suo zio Schemseddin partissi tre giorni dopo.
Arrivò a Bassora, dove domandò un’udienza al Sultano, il quale,
ricevutolo favorevolmente, dimandogli la cagione del suo viaggio a
Bassora.
— Sire — rispose il visir Schemseddin — son
venuto per avere notizie del figlio di Noureddin Alì mio fratello, che
ha avuto l’onore di servire Vostra Maestà.
— Noureddin Alì è morto da lungo tempo —
ripigliò il Sultano.
La vedova di Noureddin Alì abitava sola nel
palagio dove suo marito era morto.
Era una bellissima casa, superbamente
costruita ed ornata di colonne di marmo: Schemseddin Mohammed non si
fermò ad ammirarla.
Giungendovi chiese di parlare alla sua
cognata, i cui domestici gli dissero stare in un piccolo edificio a
guisa di cupola, che gli mostrarono in mezzo ad un cortile spazioso.
Questa tenera madre aveva l’uso di passare la
miglior parte del giorno e della notte in quell’edificio fatto costruire
per rappresentare la tomba di Bedreddin
Hassan, da essa creduto morto, dopo averlo
invano lungamente atteso.
Ella era occupata allora a piangere un tanto
amato figlio: e Schemseddin Mohammed la trovò immersa in una mortale
afflizione.
Nel salutarla la pregò di sospendere le
lacrime e i suoi gemiti facendole conoscere essere egli suo cognato,
quali erano le ragioni che lo avevano obbligato a partire dal Cairo per
recarsi a Bassora.
Quando la vedova di Noureddin Alì comprese,
dal discorso fattole, che il suo amato figlio che ella tanto piangeva
poteva essere ancora in vita, si alzò ed abbracciò strettamente Dama di
Bellezza ed il suo nipote Agib nel quale riconobbe la fisionomia di
Bedreddin.
— Signora — disse Schemseddin Mohammed —
asciugate le vostre lagrime, bisogna che vi disponiate a venire con noi
in Egitto. Il Sultano di Bassora mi permette di condurvi, e spero di
veder da voi esaudita la mia preghiera. Forse troveremo vostro figlio.
La vedova fece al momento preparar tutto per
la partenza.
Schemseddin Mohammed, partì da Bassora, e
riprese il cammino di Damasco.
Allorché fu vicino a questa città fece
innalzare le sue tende fuori della porta per la quale doveva entrare, e
si propose di soggiornarvi tre giorni.
Mentre occupavasi egli medesimo a scegliere
le più belle stoffe che i principali mercanti avevano recato sotto le
sue tende, Agib pregò l’eunuco sua guida di condurlo a passeggiare per
la città, avendo gran piacere di saper notizie del pasticciere da lui
ferito.
L’eunuco vi aderì. Passarono davanti la
bottega di Bedreddin Hassan, il quale ritrovarono occupato a fare delle
torte di fior di latte.
— Io vi saluto — gli disse Agib — guardatemi.
Vi ricordate voi di avermi veduto? A queste parole Bedreddin gli fissò
gli sguardi sopra, e riconoscendolo, sentì la stessa commozione della
prima volta, e si confuse; ed invece di rispondergli, restò immobile per
lungo tempo, senza poter proferire una sola parola. Nondimeno, rivenendo
dal suo sbalordimento:
— Mio piccolo signore — diss’egli — fatemi la
grazia di entrare un’altra volta nella mia bottega col vostro zio per
mangiare una torta di fior di latte.
Agib meravigliato di quanto dicevagli
Bedreddin, rispose:
— Eccessivo è l’amore che mi dimostrate, né
entrar voglio nella vostra bottega se prima non mi giurate di non
seguirmi quando ne sarò uscito. Se me lo promettete e lo manterrete,
tornerò a vedervi ancora domani, mentre il Visir mio avolo comprerà di
che poter fare un regalo al Sultano d’Egitto.
— Mio piccolo signore — ripigliò Bedreddin
Hassan — farò quanto voi mi comanderete.
Ciò detto, Agib e l’eunuco entrarono nella
bottega.
Bedreddin subito presentò loro una torta di
fior di latte.
Terminato che ebbero di mangiare, Agib ed il
suo conduttore, ringraziarono il pasticciere, e si ritirarono perché era
già un po’ tardi.
Giunti sotto le tende di Schemseddin
Mohammed, andarono subito a quelle delle dame. L’ava di Agib fu molto
contenta di rivederlo.
— Ah! figliuol mio —
gli disse — il mio contento sarebbe perfetto, se avessi il piacere di
abbracciare vostro padre Bedreddin Hassan, come abbraccio voi. Ella
allora ponendosi a tavola per cenare, lo fece sedere a lei vicino,
interrogandolo sopra il suo passeggio: presentandogli un pezzo di torta
di fior di latte come pure all’eunuco.
Agib, appena ebbe assaggiato un bocconcino
della torta di fior di latte finse di non trovarla di suo piacimento e
la lasciò intiera, e Schahan, così si chiamava l’eunuco, fece lo stesso.
La vedova di Noureddin Alì, accortasi con
dispiacere del poco conto che suo nipote faceva della sua torta, gli
disse:
— Come, o figliuol mio, è possibile che voi
sprezziate l’opera delle mie proprie mani? Nessuno al mondo è capace di
farne di così buone, all’infuori di vostro padre Bedreddin Hassan al
quale ho insegnato la grand’arte di farne delle simili.
— Ah! mia buona nonna — esclamò Agib — vi è
un pasticciere in questa città che in questa grand’arte vi supera: noi
siamo stati or ora a mangiarne nella sua bottega una migliore di questa.
— Non posso credere che le torte di fior di
latte di quel pasticciere, sieno migliori delle mie, e perciò voglio
accertarmene. Tu sai ove dimora, va’ da lui, e portami subito una torta
di fior di latte.
Ciò detto fece dare del denaro all’eunuco per
comprare la torta, il quale subito partì.
Come fu giunto alla bottega di Bedreddin, gli
disse:
— Buon pasticciere, tenete questo danaro, e
datemi una torta di fior di latte, volendo una delle nostre donne
gustarne.
Ve n’erano allora delle calde; Bedreddin
scelse la migliore e dandola all’eunuco:
— Pigliate questa, ve la prometto eccellente,
e posso assicurarvi non esservi nessuno capace di farne delle simili,
all’infuori di mia madre, la quale non so se vive ancora.
Schahan ritornò con sollecitudine alle tende
con la torta di fior di latte. Egli la presentò alla vedova di Noureddin
Alì, la quale la prese con gran premura e ne ruppe un pezzo per
mangiarla: ma non appena la ebbe appressata alla bocca, mise un grido e
cadde svenuta.
Schemseddin Mohammed, il quale era presente,
restò estremamente meravigliato di questo accidente. Spruzzolle egli
stesso dell’acqua sul viso, e si affrettò a soccorrerla.
Non appena fu rinvenuta:
— Ohimè! — esclamò — colui che ha fatto
questa torta dev’essere mio figlio Bedreddin. Rallegriamoci, o fratello,
— soggiunse con trasporto — abbiamo finalmente ritrovato colui che
cerchiamo e desideriamo da tanto tempo.
— Signora, — replicò il Visir — moderate la
vostra impazienza, e facciamo venir qui il pasticciere: se questi è
Bedreddin Hassan, lo riconoscerete molto bene voi e la mia figliuola. Ma
bisogna che vi nascondiate, perché se è lui, non voglio che il
riconoscimento abbia luogo a Damasco.
Terminando queste parole, lasciò le dame
nella lor tenda e restituissi nella sua. Colà fece venire cinquanta de’
suoi uomini, e disse loro:
— Prendete ognun di
voi un bastone, e seguite Schahan, il quale vi condurrà da un
pasticciere di questa città. Quando vi sarete giunti rompete e fate in
pezzi tutto ciò che ritroverete nella sua bottega; se egli vi cerca del
perché commettete questo disordine, domandategli solamente s’è desso che
ha fatto la torta di fior di latte comprata nella sua bottega. S’egli vi
risponde di sì, assicuratevi della sua persona, legandolo bene, e
conducetemelo: ma abbiasi tutta l’attenzione
di non batterlo, né di
fargli il minimo aggravio. Andate, e non perdete tempo.
Il Visir fu prontamente obbedito.
Le sue genti, armate di bastoni, e condotte
dall’eunuco nero si portarono prontamente alla casa di Bedreddin Hassan,
ove ridussero in mille pezzi i piatti, le caldaie, i tegami, le tavole e
gli altri mobili.
A tale spettacolo Bedreddin molto
meravigliato, disse loro:
— Ehi, buone persone, perché mi trattate in
tal maniera?
— Non siete voi — gli dissero — che avete
fatta la torta di fior di latte, venduta a quest’eunuco?
— Sì, io stesso, — rispose egli — e sfido
chiunque a farne una migliore.
I domestici intanto si assicurarono della sua
persona senza dargli retta, e dopo avergli levata per forza la tela del
suo turbante, se ne servirono per legargli le mani dietro la schiena;
levatolo poscia per forza dalla sua bottega lo menaron con essi.
Venne adunque Bedreddin trascinato,
nonostante i suoi clamori e le sue lacrime, alle tende del Visir.
Appena tornato il Visir chiese notizie del
pasticciere, facendoselo subito condurre inanzi.
— Signore — dissegli
Bedreddin con le lacrime agli occhi — fatemi la grazia di dirmi in che
mai vi ho offeso?
— Ah! sciagurato — rispose il Visir — non hai
tu fatta la torta di fior di latte a me mandata?
— Confesso esser stato io — rispose Bedreddin
— ma qual delitto ho in ciò commesso?
— Io ti castigherò come meriti — replicò
Schemseddin Mohammed — e ti costerà la vita, per aver composto una torta
cotanto cattiva.
— Ohimè! esclamò Bedreddin — che sento io
mai? È egli un delitto degno di morte di aver fatta una torta di fior di
latte cattiva?
— Sì — disse il Visir — né devi aspettar da
me trattamento diverso.
Mentre in tal maniera entrambi si
trattenevano, le dame stando nascoste osservavano con attenzione
Bedreddin il quale non penarono a riconoscere, sebbene non l’avessero
veduto da lungo tempo. La gioia che ne ebbero fu tale, che caddero
svenute.
Avendo Schemseddin Mohammed stabilito di
partire quella stessa notte, fece piegar le tende e preparare i carri
per mettersi in marcia. Riguardo a Bedreddin,
comandò fosse posto in una cassa ben serrata
e caricato sopra un cammello. Appena il tutto fu pronto per la partenza,
il Visir e le genti del suo seguito si posero in cammino. Furono pure
nel tempo stesso caricati di nuovo tutti gli altri cammelli, ed il
Visir, risalito a cavallo, fece andare avanti il cammello che portava
suo nipote, ed entrò nella città accompagnato da tutto il suo
equipaggio. Dopo aver passate molte strade, ove nessuno comparve, perché
ognuno si era ritirato, andò al suo palazzo, ove fece scaricar la cassa
con proibizione di aprirla, se non quando egli l’ordinerebbe.
Nel mentre si scaricavano gli altri cammelli,
si ritirò in segreto con la madre di Bedreddin Hassan e la sua
figliuola, e voltandosi a questa ultima:
— Lodato sia Maometto — le disse — o mia
figlia, di averci con tanta felicità fatto ritrovare vostro cugino, e
vostro marito. Se vi ricordate presso a poco lo stato in cui stava la
vostra camera la prima notte delle vostre nozze, andate e fatevi riporre
il tutto come allora ritrovavasi. Se poi non ve ne ricordate, potrò io
supplirvi colla scrittura, che ne ho fatta fare. In quanto a me vado a
dare ordine per il rimanente.
Dama di Bellezza andò ad eseguire con giubilo
quanto aveale comandato suo padre, il quale pure principiò a disporre
ogni cosa nella sala nella stessa maniera come stava quando Bedreddin
Hassan vi si era ritrovato col palafreniere gobbo del Sultano d’Egitto.
Quando il tutto fu preparato nella sala, il Visir entrò nella camera
della sua figliuola, ove pose il vestito di Bedreddin con la borsa degli
zecchini; ciò eseguito, egli disse a Dama di Bellezza:
— Andate, o mia figliuola, a riposarvi nel
letto. Come Bedreddin entrerà nella camera, lamentatevi di ciò ch’egli è
rimasto fuori lungamente, e ditegli che rimaneste forte meravigliata,
destandovi, di non trovarlo. Stimolatelo poscia a coricarsi, e domani
mattina divertirete vostra suocera e me, narrandoci quanto vi sarete
detto questa notte.
Dopo ciò uscì dall’appartamento di sua
figlia.
Schemseddin Mohammed, fece uscir dalla sala
tutti i domestici, e comandò loro di allontanarsi, all’infuori di due o
tre, incaricandoli di cavar Bedreddin fuori della cassa, e dopo averlo
spogliato in semplice camicia e mutande, condurlo in tale stato nella
sala, e lasciarnelo solo, chiudendo la porta.
Bedreddin Hassan, sebbene oppresso dal dolore
erasi addormentato così profondamente,
che i domestici del Visir lo levarono dalla cassa prima che egli si
risvegliasse. Fu poscia trasportato nella sala sì bruscamente, da non
avere il tempo di scorgere il luogo in cui si trovava.
Rimasto solo nella sala, e guardandosi
intorno si accorse con istupore, che quella era la stessa sala ove avea
veduto il palafreniere gobbo. La sua sorpresa si accrebbe maggiormente
allorché essendosi accostato pian piano alla porta della camera, cui
trovò aperta, vi mirò dentro il suo vestito nel luogo stesso ove
ricordavasi di averlo posto la notte delle sue nozze.
— Ohimè! — esclamò stropicciandosi gli occhi
— dormo o veglio? Dama di Bellezza che l’osservava, dopo essersi
divertita del suo stupore, aprì all’improvviso le cortine del suo letto,
e sporgendo fuori il capo:
— Signore mio caro — gli disse con voce molto
affettuosa — che fate voi alla porta? Venite a riposarvi. Siete stato
fuori molto tempo. Sono rimasta molto sorpresa, risvegliandomi, di non
ritrovarvi a me dappresso.
Bedreddin Hassan si mutò di colore quando
riconobbe esser la dama che gli parlava, quella vezzosa creatura con cui
ricordavasi d’aver dormito. Egli entrò nella camera, ma come era pieno
delle idee di quanto eragli accaduto per dieci anni, invece di andarsene
a letto si avvicinò alla cassa ove erano le sue vesti e la borsa degli
zecchini, e dopo averli con molta attenzione esaminati:
— Per il gran Maometto! — esclamò vedo cose
incomprensibili.
La dama, che davasi piacere del suo
imbarazzo, gli disse:
— Una volta ancora, o signore, venite a
riporvi nel letto; perché vi trattenete?
A queste parole egli
s’inoltrò verso Dama di Bellezza.
— Io vi supplico, o signora, — le disse — di
dirmi se è molto tempo che mi trovo vicino a voi?
— L’interrogazione mi sorprende — essa
rispose — non vi siete voi levato da me poco tempo fa? Bisogna che
abbiate lo spirito molto preoccupato.
— Signora — replicò Bedreddin — non l’ho
certamente molto tranquillo. Mi ricordo, è vero, di essere stato a voi
vicino: ma mi ricordo ancora di aver soggiornato dieci anni a Damasco.
Bedreddin non passò tranquillamente la notte.
Si risvegliava di quando in quando, e
interrogava sé stesso se dormiva o sognava. Diffidava delle sue
felicità, e cercando di assicurarsene, apriva le cortine e scorreva con
gli sguardi la camera.
Il giorno che compariva, non aveva per anco
dissipato la sua inquietudine, quando il Visir Schemseddin Mohammed suo
zio, picchiò alla porta, ed entrò quasi nello stesso tempo per
augurargli il buon giorno. Bedreddin Hassan restò estremamente sorpreso
di veder in un subito comparire un uomo ch’egli ben conosceva.
Il Visir si pose a ridere: e per levarlo di
pena narrogli come per ministero di un Genio (giacché il racconto del
gobbo avevagli fatto sospettar l’accidente) aveva ritrovato la casa sua
e sposato la sua figliuola in luogo del palafreniere del Sultano; gli
disse poscia che mediante il foglio scritto di mano di Noureddin Alì
aveva scoperto esser egli suo nipote, e finalmente gli partecipò, che in
conseguenza di questo scoprimento era partito dal Cairo, ed era andato
fino a Bassora per ricercarlo, e sapere sue notizie.
— Nipote mio caro — soggiunse egli
abbracciandolo con amore — vi chieggo perdono di quanto vi ho fatto
soffrire, dopo avervi riconosciuto. Ho voluto condurvi alla mia casa
prima di farvi sapere la vostra felicità, la quale riuscir vi deve tanto
più grata, in quanto sono state maggiori le pene da voi sofferte.
Consolatevi di tutte le vostre afflizioni per
l’allegrezza di vedervi restituire a persone, a voi carissime. Mentre vi
vestite, vado ad avvisare vostra madre, la quale è impaziente di
abbracciarvi, e vi condurrò pure il vostro figliuolo, che avete veduto a
Damasco, e pel quale avete sentito tanto amore, senza conoscerlo.
Non vi sono parole sufficienti ad esprimere
l’allegrezza di Bedreddin quando vide sua madre, e il suo figliuolo Agib.
Il Visir Giafar, avendo terminato in tal
maniera la storia di Bedreddin Hassan, disse al Califfo Haroun-al-Rascid:
— Gran commendatore de’ credenti questo è
quello che doveva narrare alla Maestà Vostra.
Il Califfo ritrovò questa storia tanto
singolare, che accordò senza esitare la grazia allo schiavo Rihan, e per
consolare il giovane del dolore di essersi egli stesso privato
infelicemente di una moglie teneramente amata, questo Principe lo maritò
con una delle sue schiave, lo ricolmò
di ricchezze e lo beneficò sino alla sua morte.
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