STORIA DEL MANCINO
— Sappiate mi disse — essere io nativo di
Bagdad.
Come fui giunto all’età di dodici anni,
frequentai
persone le quali avevano viaggiato e che
dicevano le grandi meraviglie di Egitto, e particolarmente del gran
Cairo. I loro discorsi mi fecero una forte impressione, e concepii
un’ardente brama di venirvi. Nel mio arrivo al Cairo andai a smontare al
Khan chiamato di Mesrour, vi pigliai un alloggio con un magazzino, nel
quale feci riporre le mie balle portate meco sopra diversi cammelli.
Fui subito circondato da una folla di sensali
e di venditori.
— Se volete — mi dissero — noi vi suggeriremo
un mezzo di non perder nulla sulle vostre stoffe.
I sensali e i banditori avendomi promesso di
insegnarmi il mezzo di non perdere sopra le mie mercanzie, chiesi loro
il da farsi.
— Distribuitele a molti mercanti —
ripigliarono quelli — essi le venderanno al minuto, e due volte la
settimana, il lunedì e il giovedì, voi andrete a ricevere il danaro
ricavatone.
Accettai il loro consiglio, li condussi meco
al mio magazzino, e avendo prese tutte le mie mercanzie, ritornando al
Bezestein, le distribuii a diversi mercanti, i quali mi fecero una
ricevuta sottoscritta alla presenza di testimoni.
In tal maniera disposti i miei affari, non
ebbi lo spirito occupato se non ai piaceri. Passato il primo del mese,
principiai a visitare i mercanti due volte la
settimana. Ciò non impediva che gli altri
giorni della settimana non andassi a passare la mattina, ora da un
mercante, ora da un altro, e mi divertissi a trattenermi con essi.
Un lunedì mentre stava seduto nella bottega
di uno di quei mercanti, nominato Bedreddin, una dama entrò nella stessa
bottega, e si assise a me vicina.
Il suo esteriore, unito ad una grazia
naturale, mi prevenne in suo favore, e m’ispirò un ardente desiderio di
conoscerla meglio.
Dopo di essersi trattenuta per qualche tempo
col mercante di cose indifferenti, gli disse volere una certa stoffa a
fondo d’oro, per cui ella veniva alla sua bottega come la meglio
provveduta.
Il mercante avendogliene fatto vedere molte
pezze ad una essendole entrata a genio, ne chiese il prezzo.
Bedreddin domandonne mille e cento dramme di
argento.
— Consento di darvi questa somma — gli disse
colei — ma non avendo portato meco i denari, spero vi compiacerete
lasciarmela a credito fino a domani, e concedermi di portar via il
drappo; non trascurando di mandarvi domani le mille e cento dramme
convenute.
— Signora — le rispose Bedreddin — io ve la
lascerei a credito con piacere, e vi lascierei portar via il drappo se
quello fosse di mia ragione, ma appartenendo a questo signore che vedete
qui, non posso disporne.
— Or bene, questo è il vostro drappo — diss’ella
gettandoglielo sul banco — Maometto confonda voi, e quanti mercanti vi
sono.
Terminando queste parole si alzò crucciata,
uscendosene piena di sdegno contro Bedreddin.
Quando vidi che la dama si ritirava, sentii
il mio cuore interessarsi a suo favore e la richiamai dicendole:
— Signora, fatemi la grazia di ritornare;
forse troverò mezzo di contentar l’uno e l’altra. Essa rientrò dicendo
che a far ciò s’induceva per amor mio.
— Signor Bedreddin —
dissi allora al mercante — quanto volete vendere questo drappo che a me
appartiene?
— Mille e cento dramme d’argento — egli
rispose — non posso lasciarlo a minor prezzo.
— Rilasciatelo adunque a questa dama —
ripigliai — e che se lo porti seco. Vi do cento dramme di
guadagno,
e vi fo una ricevuta della somma per
unirla al conto delle altre mercanzie di mia proprietà, — presentando
poscia il drappo alla dama:
— Potete portarlo via con voi, o signora — le
dissi — e quanto al denaro me lo manderete domani, o un altro giorno.
— O signore — quella ripigliò — Il cielo per
rimunerarvene, accresca le vostre facoltà, e vi faccia vivere lungo
tempo.
Queste parole mi somministrarono molto
coraggio.
— Signora — le dissi — lasciatemi vedere il
vostro sembiante, in compenso di avervi fatto piacere.
A queste espressioni ella si volse verso di
me, levò la mussolina la quale coprivale il sembiante, ed offrì a’ miei
occhi una bellezza singolare. Non mi sarei giammai stancato di
guardarla: ma quella prestamente si ricoprì il viso, per timore di
essere osservata, e dopo aver abbassato il velo, pigliò la pezza del
drappo ed allontanossi dalla bottega.
Non potei chiuder occhio in tutta la notte.
Giunto il giorno mi alzai, con la speranza di vedere l’oggetto amato.
Poco dopo il mio arrivo alla bottega di
Bedreddin vidi venir la dama accompagnata dalla sua schiava. Ella non
guardò il mercante e rivolgendosi a me solo:
— Signore — mi disse. — Vengo espressamente
per portarvi la somma, di cui vi compiaceste di buon grado risponder per
me.
— Signora — le risposi — non era d’uopo darvi
tanta premura, non aveva inquietudine alcuna pel mio danaro.
Approfittando allora dell’occasione, le
parlai dell’amore immenso che per essa sentiva: ma ella si alzò, e mi
lasciò tutta sdegnata, come se fosse stata offesa della dichiarazione
fattale.
Io mi congedai dal mercante, ed uscii dal
Bezestein senza sapere ove me ne andassi; quando sentii tirarmi per di
dietro.
Mi voltai subito, e con piacere riconobbi la
schiava della dama a cui andavo sognando.
— La mia padrona vorrebbe dirvi una parola;
compiacetevi, se vi aggrada, darvi la pena di seguirmi.
Non me lo feci dir due volte e rinvenni
l’oggetto amato nella bottega di un banchiere, ove se ne stava a sedere.
Fece sedere me pure a lei vicino,
preparandosi a parlarmi.
— Mio caro signore — mi disse — non siate
sorpreso se vi ho lasciato con un poco di sdegno: ma non ho giudicato a
proposito, alla presenza di quel mercante, di corrispondere in altro
modo alla confessione da voi fattami. Lungi di offendermene, confesso
che prendeva piacere nell’udirvi, e mi reputo infinitamente felice di
aver per amante un uomo del vostro merito.
— Signora — ripigliai trasportato d’amore e
di giubilo — nulla poteva udire di più grato, di quanto avete la bontà
di dirmi.
— Non perdiamo tempo in inutili discorsi —
essa interruppe — non dubito della vostra sincerità, e ben presto sarete
persuaso della mia. Volete voi farmi l’onore di venire alla mia casa?
Oggi è venerdì, domani verrete dopo la preghiera del mezzodì. La mia
casa è situata nella strada della Devozione. Non avete altro se non a
chiedere l’abitazione di Albos Schamma, soprannominato Bercour, già capo
degli Emiri; colà mi troverete.
Nel giorno stabilito m’alzai di buon mattino;
indossai il mio più bell’abito, presi una borsa, ove riposi cinquanta
pezzi d’oro, e salito sopra un asino, me ne partii, accompagnato
dall’uomo che me lo aveva noleggiato.
Arrivato nella strada della Devozione, dissi
al padrone dell’asino di ricercare ove fosse la casa di Bercour ed
essendogli stata insegnata, mi vi condusse. Lo pagai con generosità, e
lo licenziai, raccomandandogli di bene osservare la casa ove mi
lasciava, e di non trascurare di venire a riprendermi la seguente
mattina.
Picchiai alla porta e
subito due gentili schiave bianche come la neve e riccamente vestite,
vennero ad aprire; mi fecero entrare in un salone magnificamente ornato.
— Non aspettai lungamente nel salone; la dama
amata, in breve vi giunse adorna di perle e di diamanti, ma assai più
rifulgente per lo splendore de’ suoi occhi, anziché per quello delle sue
gioie.
Fu apparecchiata la mensa, nella quale furono
apprestate le più delicate e squisite vivande.
Ci ponemmo a tavola; e dopo mangiato
ricominciammo il nostro trattenimento, che durò fino alla notte.
La mattina seguente, dopo aver posto
destramente sotto il capezzale la borsa co’ cinquanta pezzi d’oro
portati meco, diedi un addio alla dama, la quale mi domandò quando sarei
tornato a rivederla.
– Signora – le risposi - prometto di
ritornare
questa sera.
Continuai a vedere la dama tutti i giorni,
lasciandole ogni volta una borsa di cinquanta pezzi d’oro.
Finalmente mi ritrovai senza danaro.
In questo deplorevole stato, in preda alla
disperazione, uscii dal Khan senza saper ciò che mi facessi, e me ne
andai dalla parte del castello, ove era moltissimo popolo radunato.
Arrivato che fui nel luogo ov’era tutta
quella gente, m’inoltrai nella folla, e mi trovai a caso vicino ad un
cavaliere ben montato, che teneva all’arcione un sacco mezzo aperto, dal
quale usciva un cordone di seta verde.
Ponendo una mano sopra il sacco, giudicai
esser quello il cordone di una borsa.
Nel mentre formava questo giudizio, cavai la
borsa senza che veruno se ne accorgesse.
Il cavaliere forse erasi insospettito di
quanto io aveva fatto, pose subito la mano nel sacco, e non ritrovandovi
la borsa, mi diede un sì gran colpo con la sua scure che mi rovesciò a
terra.
Tutti quelli che furono testimoni di tal
violenza ne rimasero stupefatti, e qualcheduno pose la mano sopra la
briglia del cavallo per fermare il cavaliere, e dimandargli per qual
ragione egli mi aveva battuto e si era permesso di maltrattare in tal
modo un mussulmano.
— In che v’intrigate voi? — rispose loro con
voce arrogante — io non l’ho fatto senza ragione; questo è un ladro!
Il Luogotenente criminale allora ordinò alle
sue genti di arrestarmi, e frugarmi: il che venne tosto eseguito ed uno
fra essi, avendomi levata la borsa, pubblicamente la mostrò.
Non potei resistere a tale vergogna, onde
caddi svenuto.
Il luogotenente criminale si fece portar la
borsa e quando l’ebbe nelle mani, dimandò al cavaliere se fosse sua, e
quanto denaro vi avesse posto. Il cavaliere la riconobbe ed assicurò
esservi dentro venti zecchini. Il giudice l’aprì e avendovi trovato
effettivamente venti zecchini, gliela restituì.
Subito mi fece andare alla sua presenza.
— Giovinotto - mi disse — confessatemi la
verità. Siete voi quello che avete
preso la borsa a cotesto cavaliere? Non aspettate che io impieghi i
tormenti per farvelo dire.
Allora abbassando gli occhi confessai la mia
colpa.
Appena ebbi fatta tale confessione, il
luogotenente criminale, dopo aver chiamati molti testimoni, comandò che
mi venisse tagliata la mano, e la sentenza fu nello stesso momento
eseguita: la qual cosa eccitò la pietà di tutti gli spettatori, osservai
pure il volto del cavaliere il quale mi si accostò dicendomi:
— Conosco molto bene esser stata la necessità
che vi ha fatto commettere un’azione cotanto vergognosa e indegna di un
giovane della vostra qualità; pigliate questa borsa funesta, ve la dono,
e mi rincresce della disgrazia toccatavi.
Il giovane di Bagdad terminò di narrare in
tal maniera la sua storia al mercante cristiano, dicendo:
— Ciò che avete inteso
deve valermi di scusa per aver mangiato con la mano sinistra. Io vi sono
molto obbligato del vostro disturbo a mio riguardo, e non posso
esservene a sufficienza riconoscente: ma avendo, grazie al cielo molte
ricchezze, ancorché ne abbia consumate gran parte, vi prego tenere per
voi la somma che mi dovete.
— Questa è l’istoria: non è più sorprendente
di quella del gobbo?
Il sultano di Gasgar concepì molto sdegno
contro il mercante cristiano.
— Tu sei un temerario — gli disse — a farmi
il racconto di una storia tanto poco degna della mia attenzione, e di
paragonarmela a quella del gobbo! Puoi tu lusingarti di persuadermi, che
gl’insipidi accidenti di un giovine dissoluto siano più meravigliosi di
quelli del mio gobbo buffone? Voglio farvi appiccare per vendicare la
sua morte!
A queste parole il Provveditore si gettò a’
piedi del Sultano.
— Sire — gli disse — supplico la Maestà
Vostra di ascoltarmi e di far grazia se l’istoria, la quale sto per
raccontare è più bella di quella del gobbo.
— Ti concedo quello che chiedi — rispose il
Sultano — parla.
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