NOVELLE
STORIA DI ZOBEIDA
— Commendatore de’ credenti — disse Zobeida
al Califfo — l’istoria che debbo raccontare a Vostra Maestà è una delle
più sorprendenti. Le due cagne nere ed io siamo tre sorelle nate da una
stessa madre e da uno stesso padre, e vi dirò per quale strano accidente
esse siano state mutate in cagne. Le due donne che stanno con me qui
presenti sono anche sorelle mie per via di padre, ma di un’altra
genitrice. Quella che ha il seno coperto di cicatrici si chiama Amina,
l’altra Sofia ed io Zobeida. Dopo la morte di mio padre, i beni che ci
avea lasciati furono divisi egualmente fra noi: e quando queste due
ultime sorelle ebbero presa la loro porzione, si separarono ed andarono
a dimorare con la loro madre. Le due altre mie sorelle ed io restammo
con la nostra madre, la quale viveva ancora, ma che morendo lasciò a
ciascuna di noi mille zecchini.
Quando avemmo ciò che
ci apparteneva, le due maggiori sorelle, perché io sono la minore, si
maritarono.
Poco tempo dopo il loro matrimonio, il marito
della prima vendé tutto ciò che aveva di beni e di mobili e col denaro
ricavatone andarono in Africa.
Colà il marito sciupò in divertimenti tutti i
suoi beni e quel che aveagli portato la moglie. Indi, vedendosi ridotto
all’ultima miseria, trovò il pretesto di ripudiarla e la scacciò. Essa
tornò a Bagdad. Io la ricevetti con affezione, le domandai perché fosse
in così miserabile stato, ed ella manifestò, piangendo, la cattiva
condotta di suo marito e l’indegno trattamento che le avea fatto. Fui
commossa dalla sua sventura e piansi con lei.
Vivemmo insieme molti mesi con buona
intelligenza e mentre ci intrattenevamo sovente della nostra sorella
terza, ed eravamo meravigliate di non averne niuna nuova, essa giunse
nell’istesso cattivo stato dell’altra; suo marito l’avea maltrattata
nell’istesso modo, ed io la ricevetti con eguale amorevolezza.
Era un anno che
stavamo in perfetta unione e vedendo che Dio aveva benedetto il piccolo
mio fondo, formai il disegno di fare un viaggio per mare, e di rischiare
qualche cosa nel commercio. Per ciò andai colle mie due sorelle a
Bassora, ove comprai una nave tutta equipaggiata, che caricai di
mercanzie fatte venire da Bagdad.
Quando fummo in alto mare, prendemmo la via
delle Indie, e dopo venti giorni di navigazione vedemmo terra. Siccome
avevamo il vento favorevole, arrivammo di buon’ora al Porto; ove
gittammo l’ancora.
Non ebbi la pazienza di aspettar le mie
sorelle, mi feci sbarcar sola, ed andai difilata alla città. Vi trovai
un gran numero di persone sedute, ed altre in piedi; avvicinatami a
loro, riconobbi che erano pietrificate. Giunta in una gran piazza vidi
una gran porta coperta di lamine d’oro, i cui battenti erano aperti.
Dopo aver considerato l’edificio, mi persuasi esser quello il palazzo
del Principe che regnava in quel paese, e vi entrai.
Eranvi in una sala
degli eunuchi neri, tutti pietrificati.
Passai in molti altri
appartamenti e gabinetti eleganti e magnifici, i quali mi condussero in
una stanza di grandezza straordinaria, dove vi era un trono di oro
massiccio, smaltato di grossi smeraldi e sul trono un letto di ricca
stoffa, sulla quale splendeva un ricamo di perle.
V’era a capo del letto dell’uno e dall’altro
lato un lume acceso, di cui non compresi l’uso; nulladimeno simile
circostanza mi fece credere esservi qualche vivente in quel superbo
Palazzo.
Intanto si avvicinava la notte; volli
riprendere il cammino per dove era venuta, ma non mi fu facile trovarlo.
Mi confusi negli appartamenti, e trovandomi nella grande stanza ov’era
il trono, il letto e i lumi accesi, risolvetti passarvi la notte e
rimettere al domani prestissimo il ritorno al mio vascello.
Era circa mezzanotte, quando intesi la voce
d’un uomo che leggeva il Corano. Mi alzai subito, e prendendo un lume
andai dalla parte ove mi pareva venisse la voce; mi arrestai finalmente
alla porta d’un gabinetto. Posato il lume a terra, e guardando per una
fessura, mi parve che fosse un oratorio. Vidi ancora un piccolo tappeto
steso, a guisa di quelli che si usano presso di noi per posarvisi sopra
e far la preghiera.
Un giovine di bell’aspetto, seduto su quel
tappeto, recitava con grande attenzione il Corano.
Siccome la porta era appena socchiusa,
l’aprii, entrai, e standomi in piedi, feci ad alta voce questa
preghiera:
«Lode a Dio che ci ha favorito d’una felice
navigazione. Ci faccia la grazia di proteggerci anche fino al nostro
arrivo al paese. Ascoltatemi, Signore, esaudite la mia preghiera!»
Il giovine si volse a me e disse:
— Mia buona donna, vi prego di dirmi chi
siete, e ciò che vi ha condotta in questa desolata città. In compenso vi
dirò chi son io, quel che mi è avvenuto, per qual ragione gli abitanti
di questa città son ridotti nello stato in cui li avete osservati.
Io gli raccontai in poche parole donde
veniva, ciò che m’avea spinto a far quel viaggio, ed in qual modo era
giunta facilmente in Porto dopo una navigazione di venti giorni.
Egli mi fece sedere vicino a lui, e prima di
cominciare il suo discorso, non potei trattenermi dal dirgli:
— Parlate, ve ne scongiuro: ditemi, per qual
miracolo siete solo in vita fra le tante persone morte in modo inaudito?
— Questa città era la capitale d’un potente
regno, del quale portava il nome il Re mio padre. Questo Principe, la
sua Corte tutta, gli abitanti della città e tutti gli altri suoi sudditi
erano maghi, adoratori del gran fuoco di Nardun, antico re de’ Giganti
ribelli a Dio.
Quantunque nato da un padre e da una madre
idolatri, io ebbi la fortuna di aver nell’infanzia una governante, che
sapeva a memoria il Corano e lo spiegava perfettamente bene.
M’insegnò a leggere in arabo, e il libro che
mi diede per esercitarmi fu il Corano.
Ella morì, ma dopo avermi dato tutte le
istruzioni ond’io aveva bisogno per esser pienamente informato della
religione musulmana.
Dopo la sua morte persistetti costantemente
nel sentimento che essa mi aveva fatto concepire, ed ebbi in orrore il
falso Dio Nardun.
Scorsi tre anni e qualche mese, allorché una
voce tonante fece udire le seguenti parole: «Abitanti, abbandonate il
culto di Nardun del fuoco, adorate il Dio unico che fa misericordia!»
La stessa voce si fece udire per tre giorni
di seguito: ma non essendosi convertito alcuno, l’ultimo dei tre giorni,
alle tre o alle quattro del mattino tutti gli abitanti furono in un
istante mutati in pietra.
Il Re mio padre provò la stessa sorte, e fu
mutato in una pietra nera, e la regina mia madre ebbe lo stesso destino.
Io sono il solo su cui Dio non ha fatto cadere il suo terribile castigo.
Da quel tempo continuo a servirlo con più fervore di prima, e son
persuaso, mia bella signora, ch’egli vi ha inviata per mia consolazione.
Siffatto racconto, e specialmente le ultime
parole, terminarono di infiammarmi per lui, e gli dissi:
— Principe, non bisogna dubitarne, la
Provvidenza mi ha spinta nel vostro porto per offrirvi l’occasione di
allontanarvi da un luogo così funesto. Il vascello sul quale io son
venuta può persuadervi che godo qualche considerazione a Bagdad, ove ho
lasciato dei beni assai considerevoli: posso offrirvi un asilo.
Non è possibile che restiate in una città,
dove gli oggetti devono esservi insopportabili. Il mio vascello è al
vostro servizio e potete disporne assolutamente. Egli accettò l’offerta.
Quando comparve il
giorno, uscimmo dal palazzo ed andammo al Porto ove trovammo le mie
sorelle, il Capitano ed i miei schiavi inquieti sul conto mio. I marinai
impiegarono più giorni a sbarcare le merci ch’io avevo portate, ed
imbarcarvi in loro vece tutto ciò che di più prezioso era nel palazzo,
in pietre, in oro ed in argento.
Dopo aver caricato il vascello delle cose che
più ci piacquero, prendemmo le provvigioni e l’acqua che ci parvero
bisognare per il nostro viaggio, indi mettemmo alla vela col vento
favorevole.
Il giovine Principe, le mie sorelle ed io
c’intrattenemmo tutti i giorni piacevolmente. Ma, ahimè! la nostra
unione non durò molto tempo. Le mie sorelle s’ingelosirono, e mi
domandarono un giorno maliziosamente che avrei fatto di lui giungendo a
Bagdad.
Io fingendo di volger la cosa a scherzo,
risposi loro che lo avrei preso per mio sposo; indi volgendomi al
Principe, gli dissi:
— Vi prego di acconsentire: appena saremo a
Bagdad, il mio disegno è di offrirvi la mia persona per essere la vostra
umile schiava.
— Signora — rispose il Principe — non so se
scherziate; in quanto a me vi dichiaro seriamente avanti le vostre
sorelle, che fin da questo momento accetto di buon cuore l’offerta da
voi fattami, non già per considerarvi come una schiava ma come mia
padrona, non pretendendo avere alcun impero sulle vostre azioni.
Eravamo nel golfo
Persico, e ci avvicinavamo a Bassora, ove, col vento favorevole, sperava
giungere l’indomani. Ma la notte mentre dormiva, le mie sorelle mi
gettarono in mare, come pure il Principe, il quale si annegò. Io mi
sostenni qualche tempo a fior d’acqua, e poscia per fortuna, o piuttosto
per miracolo, trovai fondo.
Mi diressi verso un punto nero, il quale per
quanto permettesse l’oscurità, distinsi esser terra; infatti giunsi ad
una spiaggia, e la luce del giorno mi fece conoscere ch’io era in
un’isola deserta, situata a circa venti miglia da Bassora. Feci subito
asciugare i miei abiti al sole, e camminando osservai molte specie di
frutta, per cui non perdetti la speranza di poter conservar la vita.
Mi riposava all’ombra, quando vidi un
serpente alato grossissimo e lunghissimo che si avanzava verso di me
oscillando la lingua.
Mi alzai, e vedendo ch’era seguito da un
altro serpente ancor più grosso che lo teneva per la coda e faceva i
suoi sforzi per divorarlo, n’ebbi pietà; invece di sfuggire ebbi il
coraggio di prendere una pietra, scagliarla con tutta la mia forza
contro il serpente più grosso; egli se ne volò. Io mi tornai a sedere
all’ombra di un albero. Nel destarmi, pensate qual fu il mio stupore
quando vidi a me d’accanto una donna nera, di fisionomia viva e
piacevole, che teneva legate due cagne dell’istesso colore; le domandai
chi fosse ed ella mi rispose:
— Io sono il serpente da voi poc’anzi
liberato dal suo crudele nemico. Ho creduto non potervi meglio
rimeritare dell’importante favore a me reso, che facendo ciò che ho
fatto. Ho saputo il tradimento delle
vostre sorelle, e per vendicarvi, tosto che fui liberata col vostro
generoso soccorso, ho chiamato molte Fate mie compagne, abbiamo portate
tutte le merci del vostro vascello nei vostri magazzini di Bagdad, e
queste due cagne nere sono le vostre due sorelle, alle quali ho dato
questa forma.
A queste parole la Fata mi abbracciò
strettamente, poscia trasportandomi nella mia casa di Bagdad, vidi nel
mio magazzino tutte le ricchezze ond’era carico il vascello. Prima di
abbandonarmi, mi lasciò le due cagne, e mi disse:
— Sotto pena di esser mutata come esse in
cagna, vi ordino di dare ogni notte cento frustate a ciascuna delle
vostre sorelle, per punirle del delitto commesso.
Io fui obbligata di prometterle di eseguire
gli ordini suoi: e voi vedete che invece d’essere biasimata, merito
d’essere compianta.
Il Califfo, dopo aver ascoltato Zobeida con
ammirazione, fece pregare dal suo gran Visir la graziosa Amina di
volergli spiegare perché fosse marcata di cicatrici.
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