NOVELLE
STORIA DEL FACCHINO DI BAGDAD
Eravi a Bagdad un facchino, il quale ad onta,
del suo abbietto e penoso mestiere, non lasciava d’esser uomo spiritoso
ed allegro. Un bel mattino trovandosi con un gran paniere in una piazza
aspettando che qualcuno avesse bisogno dei suoi servizi, una signora di
bell’aspetto gli si avvicinò e gli disse con grazia:
— Su, facchino, prendete il paniere e
seguitemi. Dapprima la donna si fermò davanti una porta e picchiò. Un
cristiano, che sapea ciò ch’ella domandava portò una grossa brocca di
eccellente vino.
— Prendete questa brocca — disse la signora
al facchino — mettetela nel vostro paniere.
Si fermò poi alla bottega di un venditore di
frutta e di fiori, ov’ella scelse molti frutti e fiori, e disse al
facchino di metter tutto nel paniere e di seguirla.
Passando davanti la bottega di un beccaio, si
fece pesare venticinque libbre di carne, e il facchino, per suo ordine,
la pose pure nel paniere.
Entrò dentro un
droghiere e si fornì di ogni sorta di acque odorifere, di moscata, di
pepe, di zenzero, di grossi pezzi d’ambra grigia e di molte altre spezie
delle Indie.
Camminarono fino a che giunsero ad un albergo
magnifico la cui facciata era ornata di belle colonne ed avea una porta
d’avorio. Ivi arrestatisi, la signora picchiò leggermente.
— Entrate, sorella — disse la portinaia.
Come fu entrata col facchino, la signora la
quale aveva aperto l’uscio, lo chiuse, e tutti e tre, dopo aver
traversato un bel vestibolo passarono in un cortile spaziosissimo,
circondato da una loggia che metteva in molti magnifici appartamenti a
pian terreno.
Eravi nel fondo di questa corte un sofà
riccamente guarnito con un trono di ambra nel mezzo, sostenuto da
quattro colonne. Nel mezzo della corte eravi una gran fontana.
Il facchino pensò, dai riguardi che le due
donne avevano per una terza, che quella dovesse essere la più influente
e non s’ingannava. Questa signora si chiamava Zobeida, quella che aveva
chiusa la porta chiamavasi Sofia, e Amina era il nome di quella che
aveva fatte le provviste.
Zobeida disse alle due donne, avvicinandosi:
— Sorelle mie, non vedete che questo
buon’uomo soccombe al fardello che porta?
Allora Amina e Sofia presero il paniere,
l’una dinanzi l’altra di dietro; Zobeida vi pose anch’ella la mano, e
tutte e tre lo posarono a terra. Cominciarono a vuotarlo, e ciò fatto,
la graziosa Amina tolse del danaro e pagò il facchino.
Questi molto soddisfatto del denaro avuto,
non avrebbe dovuto che prendersi il paniere e ritirarsi: ma non poté
risolversi a far ciò, sentendosi involontariamente
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arrestato dal piacere di ammirare tre bellezze sì rare che gli pareano
egualmente incantevoli; poiché avendo Amina tolto il suo velo, non gli
sembrava meno bella delle altre.
Zobeida credette dapprima che il facchino si
arrestasse per prender fiato: ma vedendo ch’ei restava lungo tempo, gli
disse:
— Che aspettate? Non siete stato pagato a
sufficienza? Sorella — soggiunse volgendosi ad Amina — dategli qualche
altra cosa acciò se ne vada contento.
— Signora — rispose il facchino — non è
questo che mi trattiene; son pagato sin troppo della mia fatica.
Veggo bene che ho commesso
un’inciviltà rimanendo qui più del dovere; ma spero che avrete la bontà
di perdonare alla sorpresa che mi cagiona di non veder qui alcun uomo,
con tre donne di una bellezza sì poco comune.
Le donne risero del ragionamento del
facchino; indi Zobeida gli disse d’un tuono serio:
— Amico, voi spingete un po’ troppo la vostra
indiscretezza: pur tuttavolta voglio dirvi che noi siamo tre sorelle che
facciamo così segretamente i fatti nostri, che nessuno ne sa nulla.
Abbiamo gran ragione di temere di farne parte agl’indiscreti.
— Signore mie, — riprese a dire il facchino —
quantunque la fortuna non mi abbia dato ingegno per elevarmi ad una
professione al disopra della mia non ho mancato di coltivarmi lo
spirito, per quanto ho potuto colla lettura di libri: e mi permettete di
dirvi che ho letto in un autore la massima che ho sempre praticata con
successo, ed è questa: «Non ascondiamo il nostro segreto che a
gente conosciuta da tutti per indiscreta e che abuserebbe della nostra
confidenza: ma non abbiamo nessuna difficoltà di scoprirlo ai saggi,
essendo persuasi che sapranno mantenerlo.»
Zobeida conobbe che il facchino non mancava
di spirito, ma giudicando che avesse desiderio di partecipare al
divertimento che voleano pigliarsi, gli ripeté sorridendo:
— Voi sapete che ci prepariamo a divertirci:
ma sapete ancora che abbiamo fatto una spesa considerevole, e non è
giusto che senza contribuirvi possiate essere della partita.
Il facchino a queste parole, voleva
restituire il denaro ricevuto: ma Zobeida gli ordinò di conservarlo.
— Ciò ch’è una volta uscito dalle nostre mani
— diss’ella — per compensare quelli
che ci han resi dei servigi, non ritorna più!...
Zobeida dunque, non volle affatto riprendere
il denaro del facchino, ma invece gli disse:
— Amico mio, acconsentendo che restiate con
noi. vi avverto che non è solo a condizione di guardare il segreto, ma
pretendiamo eziandio che osserviate le regole della decenza e della
cortesia.
Mentre dessa teneva questo discorso, la
vezzosa Amina lasciato il suo abito di città succinse la sua veste per
operar con più libertà e preparare la tavola.
Apparecchiò molte specie di vivande
e sopra una credenza pose delle bottiglie di vino e delle tazze d’oro.
Fatto ciò le donne si adagiarono, e fecero sedersi a fianco il facchino.
Dopo i primi bocconi, Amina prese una
bottiglia e una tazza, si mise a mescere, e bevve la prima. Versò in
seguito alle sue sorelle, che bevvero l’una dopo l’altra; poi riempiendo
per la quarta volta la stessa tazza, la presentò al facchino che,
ricevendola, baciò la mano d’Amina e cantò, prima di bere, una canzone.
Questa canzone rallegrò le signore, che
cantarono alla lor volta. Infine la compagnia fu lietissima durante il
pasto, che durò lunghissimo tempo.
Il giorno finiva, quando Sofia disse al
facchino:
— Alzatevi, partite, ch’è tempo di ritirarvi.
Il facchino, non
potendo risolversi a lasciarle, rispose:
— Eh! care signore, dove volete ch’io vada
nello stato in cui sono? Son fuor di me a forza di bere e di vedervi.
Non troverò certo la via della mia casa. Lasciatemi la notte per
rimettermi; la passerò dove vorrete: ma non mi bisogna un tempo minore
per ritornare nel medesimo stato in cui era quando sono entrato da voi.
Amina prese una seconda volta la parte del
facchino, e disse:
— Sorelle, egli ha ragione: ci ha molto
divertite; se mi amate quanto ne sono persuasa, riteniamolo per passare
la sera con noi.
— Sorella — disse Zobeida — non possiamo
rifiutar nulla alla vostra preghiera: e dirigendosi al facchino, disse:
— Vogliamo benanche farvi questa grazia: ma
vi apponiamo una nuova condizione: qualunque cosa faremo in vostra
presenza, o per riguardo a noi, o per altro, guardatevi bene di aprire
solamente la bocca per domandare la
ragione: dappoiché, facendoci domanda su cose che non vi riguardano per
nulla, potreste intendere quello che non vi piacerebbe.
— Signore — riprese il facchino — la mia
lingua in questa occasione starà immobile ed i miei occhi saranno come
uno specchio che non ritiene nulla delle immagini ricevute.
— Per mostrarvi — rispose Zobeida molto
seriamente — non esser di fresco stabilito fra noi ciò che vi
domandiamo, alzatevi e andate a leggere ciò che sta scritto al di sopra
della nostra porta inferiore.
Il facchino andò fin là e lesse queste parole
scritte a caratteri d’oro: «Chi parla di cose che non lo riguardano,
sente ciò che non gli piace.»
Amina arrecò la cena: e quand’ebbe
rischiarata la sala con molti lumi di legno d’aloè e d’ambra grigia, si
assise a tavola con le sorelle ed il facchino.
Cominciarono a mangiare, a bere, a cantare e
a recitar versi; erano nella migliore allegria del mondo, quando
intesero picchiare la porta...
Le dame sentendo battere, si levarono tutte
ad un tempo per andare ad aprire: ma Sofia, ch’era addetta
particolarmente a ciò, fu la più diligente.
Sofia tornò e disse:
— Sorelle, si offre un’occasione di passar
lietamente gran parte della notte, e se siete del mio parere, non ce la
lasceremo sfuggire. Vi sono alla nostra porta tre Calender, almeno
all’abito sembrano tali: ma ciò che vi sorprenderà è che han rasa la
testa, la barba e le sopracciglia, e son ciechi dall’occhio destro.
Dicono di esser giunti or ora a Bagdad, ove non sono mai venuti, e
siccome per la notte non sanno dove alloggiare, hanno picchiato a caso
alla nostra porta, e ci pregano per l’amor di Dio di aver la carità di
riceverli. Sono giovani, gentili, sembra ch’abbiano molto spirito, ma
non posso pensar senza ridere alla loro figura ridicola.
Qui Sofia s’interruppe con uno scroscio di
risa tale che le altre sorelle e il facchino non poterono fare a meno di
far lo stesso.
— Sorelle — riprese — vogliamo farli entrare?
— Andate dunque — disse Zobeida — fateli
entrare. Ma avvertiteli di non parlar di ciò che non li riguarda, e fate
che leggano quanto sta scritto sulla porta.
Allora Sofia corse lieta ad aprire, e poi
tornò coi tre Calender.
I tre Calender, entrando, s’erano inchinati
profondamente alle dame, le quali s’erano alzate per riceverli e dar
loro il benvenuto.
Quando i Calender furono seduti a tavola, le
signore porsero loro da mangiare, e la graziosa Sofia si prese la cura
particolare di versar loro da bere.
Dopoché i Calender
ebbero bevuto e mangiato a discrezione, si offersero di dare alle dame
un concerto di musica se avevano istrumenti. Liete elleno accettarono e
la bella Sofia si alzò per andarli a cercare. Tornò subito e loro
presentò un flauto del paese, un altro alla persiana ed un tamburo
basco. Ogni Calender ricevette di sua mano l’istrumento e cominciarono
tutti e tre a suonare un’aria.
Le donne, che sapevano delle parole su
quell’aria dolcissima, l’accompagnarono colla voce, ma di tratto in
tratto s’interrompevano con grandi scoppi di risa.
Al più bel punto di questo divertimento e
quando la compagnia era nella massima gioia, si picchiò alla porta.
Sofia cessò di cantare, e andò a vedere chi
fosse. Il califfo Haroun-al-Rascid usando camminare spessissimo
incognito la notte, per sapere da se stesso se tutto fosse tranquillo
nella città, e se vi si commettessero disordini, in quella notte era
uscito di buon’ora accompagnato da Giafar suo gran Visir, e da Mesrour
capo degli eunuchi di Palazzo tutti e tre travestiti da mercanti.
Passando per la strada delle tre donne,
questo Principe, udendo il suon degl’istrumenti e delle voci, e gli
scrosci di risa, disse al Visir:
— Picchiate a quella casa; ove si fa tanto
rumore; voglio entrare per saperne la cagione.
Sofia aprì, e il Visir, osservando alla luce
d’una candela tenuta da lei ch’era una donna bellissima, sostenne molto
bene la sua parte, le fece una profonda riverenza; e le disse
rispettosamente:
— Signora, noi siamo tre mercanti di Mussul,
arrivati da circa dieci giorni con ricche mercanzie che abbiamo in
magazzino dentro un klan, avendo noi udito, passando voci e
strumenti, abbiamo giudicato che si fosse ancora in veglia in casa
vostra, e ci siamo presi la libertà di pregarvi a darci ricovero fino a
giorno.
Durante il discorso di Giafar la bella Sofia
ebbe il tempo di esaminare colui che
le parlava e le due persone ch’ei diceva mercanti come lui: e giudicando
dalla fisionomia che non erano persone volgari, disse loro di non esser
la padrona, ma se volevano aspettare un momento, ella tornerebbe a
portar la risposta. Sofia andò a far rapporto alle sorelle, le quali
essendo benigne per natura ed avendo già fatta la stessa grazia ai
Calender, risolvettero di farli entrare.
Il Califfo, il suo gran Visir, ed il Capo
degli eunuchi, essendo stati introdotti dalla bella Sofia, salutarono le
dame e i calender molto cortesemente. Le dame corrisposero egualmente
credendoli mercanti, e Zobeida, disse loro con tuono grave e serio come
a lei conveniva:
— Siate i benvenuti! Ma prima di tutto non
abbiate a male se vi domandiamo una grazia.
— E qual grazia, signora? — rispose il Visir
— Puossi rifiutar cosa alcuna a donne sì belle?
— Si è — disse Zobeida — di aver occhi e non
lingua; di non farci domande su quel che vedrete, per saperne la
cagione, e di non parlare di ciò che non vi riguarderà, per tema non
sentiate quello che non può esservi gradito.
— Sarete obbedita, signora — riprese il
Visir.
A tali parole ciascuno si assise, la
conversazione proseguì e cominciossi a bere in onore dei nuovi venuti.
La conversazione essendo caduta sui
divertimenti e le differenti specie di sollazzarsi, i Calender si
alzarono e ballarono a loro uso una danza, cui accrebbe nelle dame il
buon concetto che avevano di loro, e attirarono la stima del Califfo e
della sua compagnia.
Terminata la danza, Zobeida si alzò, e
prendendo Amina per la mano le disse:
— Sorella alzatevi; alla brigata non
dispiacerà se non usciamo dal nostro sistema, e la loro presenza non
s’opporrà a ciò che siamo usate di fare.
Amina, che comprese ciò che voleva dire sua
sorella, si alzò e tolse i piatti, la tavola, le bottiglie, le tazze e
gl’istrumenti.
Sofia non istette senza far nulla.
Spazzò la sala, pose al suo luogo ogni cosa
disordinata, smoccolò i lumi, vi mise altro legno d’aloè ed altr’ambra
grigia. Ciò fatto, pregò i tre Calender di sedersi sul sofà da un lato
ed il Califfo dall’altro coi suoi compagni. Al facchino disse:
— Alzatevi e preparatevi a darei aiuto a quel
che faremo; un uomo oramai famigliare
come voi siete, non deve starsi inoperoso.
Il facchino avendo alquanto digerito il suo
vino si alzò subito.
— Eccomi pronto, di che si tratta?
Poco dopo si vide comparire Anima con un
sedile, che posò in mezzo alla sala, andò poi alla porta di un
gabinetto, ed apertala fece segno al facchino di appressarsi, e gli
disse:
— Venite ad aiutarmi.
Egli obbedì, ed
essendo entrato un momento con lei uscì un momento dopo seguito da due
cagne nere col guinzaglio attaccato ad una catena ch’ei teneva fra le
dita.
Allora Zobeida andò con gravità fin dov’era
il facchino.
— Ora, — diss’ella — facciamo il nostro
dovere.
Si nudò le braccia fino al gomito, e dopo
aver preso una frusta che le presentò Sofia, disse:
— Facchino, date una di queste cagne alla
sorella Amina, e appressatevi a me con l’altra.
Il Facchino eseguì l’ordine datogli, e quando
fu presso a Zobeida, la cagna ch’ei teneva cominciò a guaire, e si volse
ver di essa, alzando la testa in modo supplichevole: ma Zobeida senza
curarsi della cagna che faceva pietà, né dei gridi che riempivano tutta
la casa, le diede tanti colpi che stancatasene gettò la frusta
per terra; poi, togliendo la catena
dalle mani del facchino, alzò la cagna per le zampe, e mettendosi
ambedue a guardare di un’aria commovente e triste, piansero ambedue.
Finalmente prese il fazzoletto, asciugò le lagrime della cagna, la
baciò, e rimettendo la catena al facchino, gli disse:
— Andate, riconducetela dove l’avete presa, e
menatemi l’altra.
Il facchino ricondusse la cagna frustata nel
gabinetto, e ritornando prese l’altra dalle mani di Amina e la presentò
a Zobeida.
— Tenetela come la prima, — gli disse: poi,
avendo ripigliata la frusta la maltrattò nell’istesso modo.
Pianse in seguito con lei asciugò le sue
lacrime, la baciò, e la diede al facchino, a cui la graziosa Amina
risparmiò la pena di rimetterla nel gabinetto, perché se ne incaricò
essa medesima.
Zobeida restò per qualche tempo al medesimo
sito in mezzo alla sala come per rimettersi dalla fatica durata
frustando le due cagne.
— Cara sorella — le disse Sofia — non volete
tornare al vostro luogo, affinché io faccia a mia volta il mio compito?
— Sì — rispose Zobeida.
Ciò dicendo andò a sedersi sul sofà.
Sofia, ch’era seduta sul sedile in mezzo alla
sala, disse alla sorella Amina:
— Cara sorella capite bene ciò che voglio
dire.
Amina si alzò, ed andò in un gabinetto
differente da quello d’onde erano uscite le cagne.
Tornò, tenendo un astuccio guarnito di raso
giallo, abbellito di un ricco ricamo d’oro e di seta verde. Si appressò
a Sofia ed aprì l’astuccio d’onde trasse un liuto, e glielo presentò.
Essa lo prese, e
cominciò a toccarlo: ed accompagnando la sua voce cantò una canzone sui
tormenti dell’assenza, con tanta dolcezza, che tutti ne furono
incantati.
Quando ebbe terminato disse alla graziosa
Amina:
— Tenete, sorella, non ne posso più, mi manca
la voce: divertite la compagnia suonando e cantando in mia vece.
— Volentieri — rispose Amina appressandosi a
Sofia che le porse il liuto cedendole il posto.
Amina avendo un poco preludiato per vedere se
lo strumento era accordato, suonò e cantò sul medesimo soggetto, ma con
tanta veemenza che terminando le vennero meno le forze.
Zobeida volle farle osservare la sua
soddisfazione e le disse:
— Sorella, voi avete fatto maraviglie! Si
scorge chiaro che sentite il male da voi espresso sì vivamente.
Amina non ebbe il tempo di rispondere a
questa cortesia. Essa si sentì il cuore sì angustiato, che pensò a
prender respiro, lasciando vedere a tutta la compagnia un seno, non
bianco quale avrebbe dovuto averlo una donna come lei, ma tutto pieno di
cicatrici, le quali produssero una specie d’orrore nell’animo degli
spettatori.
Nulladimeno ciò non le diede alcun sollievo,
né le impedì di svenire...
Zobeida e Sofia corsero tosto a soccorrere la
sorella e uno dei calender non poté astenersi dal dire:
— Avremmo preferito dormire allo scoperto,
anziché entrar qui a vedere simili spettacoli.
Il Califfo, che lo intese, dirigendosi a loro
disse:
— Che vuol dir ciò?
Quegli che aveva parlato rispose:
— Signore, non lo sappiamo neppur noi.
Uno dei Calender fe’
segno al facchino di appressarsi, e gli domandò se sapesse perché le
cagne nere erano state frustate e perché il seno di Amina sembrava
lacerato.
— Signore — disse il facchino — posso giurare
nel gran Dio vivente, che se voi non sapete nulla di ciò, non ne
sappiamo più gli uni degli altri.
Il Califfo, risoluto di appagar la sua
curiosità a qualunque costo, disse agli altri:
— Ascoltate: poiché siamo sette uomini, e non
abbiamo a fare che con tre donne, obblighiamole a darci gli schiarimenti
che desideriamo: se mai vi si oppongono, siamo nello stato di
costringervele.
Il Visir tirò da parte il Califfo, e
parlandogli sommessamente gli disse:
— Signore, Vostra Maestà abbia un poco di
pazienza, perché la notte non durerà molto tempo. Domattina verrò a
prendere queste donne, le menerò dinanzi al trono, e saprete da loro
quanto vi piacerà.
Quantunque questo consiglio fosse molto
savio, il Califfo lo rigettò.
Si quistionava chi dovesse pigliar la parola.
Il Califfo cercò di far parlare prima i
Calender; ma essi se ne scusarono. Infine convennero tutti che parlasse
il facchino.
Questi si preparava a fare la fatal domanda,
quando Zobeida, dopo aver soccorso Amina, ch’era rinvenuta dallo
svenimento, si appressò ad essi, e poiché gli aveva intesi a parlare
alto e con calore, disse loro:
— Signori, di che parlate voi? Qual è la
vostra disputa?
Il facchino allora parlò:
— Signora — disse — questi signori vi
supplicano di voler loro spiegare perché dopo aver maltrattate le vostre
due cagne, avete pianto con esse: e donde viene che la donna svenuta ha
il seno coperto di cicatrici?
Zobeida a queste parole prese un fiero
atteggiamento e disse:
— Prima di accordarvi la grazia di ricevervi,
vi abbiamo imposto la condizione di non parlar di ciò che non vi
riguardava, per paura di non ascoltare quel che non vi piacerebbe. Dopo
avervi trattati nel miglior modo possibile, voi avete mancato alla
parola; il vostro procedere non è gentile. Dette queste parole, batté
tre volte coi piedi e colle mani, e gridò:
— Presto, venite!
Tosto si aprì una porta, e sette schiavi
negri forti e robusti entrarono colle sciabole in mano. Presero uno per
uno i sette uomini della compagnia li gettarono a terra, li tennero in
mezzo alla sala, e si prepararono a troncar loro la testa.
È facile immaginare
quale fosse lo spavento del Califfo.
Intanto uno degli
schiavi, disse a Zobeida e alle sorelle:
— Alte, potenti e rispettabili signore, non
comandate di tagliar loro il collo?
— Aspettate — disse Zobeida — bisogna che io
prima gl’interroghi.
— Signora, — interruppe il facchino — in nome
di Dio, non mi fate morire per l’altrui delitto: io sono innocente, essi
sono colpevoli.
Zobeida, ad onta della sua collera, non poté
trattenere in sé il riso ai lamenti del facchino; ma senza arrestarsi a
lui, rivolse le parole agli altri, e disse:
— Rispondete e ditemi chi siete: altrimenti
non vi resta che un sol momento di vita.
Il Califfo disse leggermente al Visir che gli
era vicino, di chiarir subito chi egli era. Ma il Visir, prudente e
saggio, volendo salvare l’onor del suo padrone, e non render pubblico il
grande affronto che esso stesso procuravasi, rispose soltanto:
— Noi lo meritiamo.
Ma ancorché per obbedire al Califfo, avesse
potuto parlare, Zobeida non gliene avrebbe dato il tempo. Essa erasi già
diretta ai Calender e vedendoli tutti e tre ciechi domandò loro s’erano
fratelli.
Uno di essi rispose per tutti:
— No, signora, noi non siamo fratelli per
sangue, ma per la qualità di Calender, cioè osservanti di un medesimo
genere di vita.
— Voi — rispose ella parlando ad uno solo —
siete nato cieco?
— No, signora — quegli rispose — lo sono per
una avventura così sorprendente, che ognuno ne profitterebbe se fosse
scritta.
Zobeida fece la stessa domanda ai due altri
Calender, che le fecero la stessa risposta del primo, ma l’ultimo che
parlò aggiunse:
— Per farvi conoscere, signora, che non siamo
persone volgari, ed affinché abbiate qualche considerazione per noi,
sappiate che siamo figli di Re.
A tal discorso Zobeida moderò la sua collera
e disse agli schiavi:
— Date loro un poco di libertà: ma restate
qui. A quelli che ci racconteranno la loro istoria adducendoci il motivo
della loro venuta in questa casa, non farete alcun male, ma non
risparmierete coloro che rifiuteranno di soddisfarci.
Il facchino, avendo compreso che non si
trattava se non di raccontar la sua istoria, per liberarsi da sì gran
pericolo, primo di tutti parlò:
— Signora, voi sapete già la mia storia e la
cagione che mi condusse in casa vostra. Perciò quanto vi debbo
raccontare sarà subito terminato.
«La signora vostra sorella, mi ha preso
stamattina in piazza, ove, in qualità di facchino, aspettavo che alcuno
mi adoperasse per guadagnarmi il vitto. L’ho seguita alla bottega d’un
venditore di erbe, di un venditore di aranci, limoni e cedri; poi a
quella di un venditore di mandorle, di noci, di avellane ed altri
frutti; indi presso ad un altro confettiere ed un droghiere. E con in
testa il paniere, venni qui, e voi avete avuto la bontà di soffrirmi
finora. Questa è una grazia che ricorderò eternamente, ecco la mia
storia.
Quando il facchino ebbe terminato, Zobeida
soddisfatta gli disse:
— Salvati, vanne e fa’ che non ti veggiamo
più!
Dopo di lui uno de’ tre Calender, cominciò in
tal guisa la sua istoria.
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