NOVELLE
STORIA DEL GIOVINE RE DELLE INDIE NERE
— Dovete sapere signore
— continuò quegli, — che mio padre, per nome Mahamud, era Re di questo
stato. Mio padre morì all’età di sessant’anni. Io presi il suo posto, mi
ammogliai, e la donna ch’io scelsi per divider meco la dignità reale, mi
era cugina.
Un giorno ch’essa era al
bagno, ebbi desiderio di dormire e mi gettai sopra un sofà. Due delle
sue donne che si trovavano allora nella mia stanza, vennero a sedersi
una a capo e l’altra ai piedi del mio letto con in mano un ventaglio.
Credendomi esse addormentato, s’intrattenevano a voce bassa tra loro: ma
io non perdei una parola della loro conversazione.
Una di queste donne
disse all’altra:
— Non è vero che la
Regina ha gran torto di non amare un Principe sì amabile com’è il
nostro?
— Sì, certo — rispose la
seconda — per me non ne comprendo nulla, e non so perché ella esce tutte
le notti e lo lascia solo, ed egli non se ne accorge.
— Eh! come vuoi che se
ne accorga? essa gli mesce ogni sera nella bevanda un certo succo d’erbe
il quale lo fa dormire profondamente, ch’ella ha il tempo di andare ove
meglio le piace, per tornare a riposarsi vicino a lui allo spuntar del
giorno; allora lo sveglia facendogli passare un certo odore sotto il
naso.
Immaginate, o signore,
quali sentimenti m’inspirò simile discorso. Nulladimeno, ebbi impero
abbastanza sopra di me, per dissimulare: finsi di svegliarmi e di non
avere inteso nulla.
La Regina tornò dal
bagno, e prima d’andare a letto mi presentò essa medesima la tazza piena
d’acqua ch’io era uso di bere: ma invece di portarla alla bocca mi
avvicinai alla finestra aperta e gettai l’acqua sì destramente, ch’ella
non se ne accorse. E per non darle sospetto alcuno rimisi la tazza nelle
sue mani.
Coricatici e credendo
ch’io fossi addormentato, levossi e disse ad alta voce:
— Dormi, e possa non
isvegliarti mai più!
Si vestì prontamente, e
uscì dalla stanza.
— Appena la Regina fu
uscita, balzai subito dal letto; mi vestii sollecitamente, presi la mia
sciabola e la seguitai sì da vicino, che la intesi subito camminare
avanti di me. Ella passò molte porte che si aprivano per virtù di certe
parole magiche che profferiva, e l’ultima fu quella del giardino ov’entrò.
Io mi arrestai alla porta affinché ella non potesse scoprirmi.
Porsi attentamente
l’orecchio a’ loro discorsi ed ecco quello che intesi:
— Io non merito — diceva
la Regina al compagno — il rimprovero che mi fate di non essere
diligente. Voi sapete la cagione che me lo impedisce.
Terminate queste parole,
l’uno e l’altra trovandosi al termine di un viale, si volsero per
entrare in un altro e mi passarono dinanzi. Io aveva già cavato dal
fodero la sciabola, ferii nel collo l’amante e lo rovesciai a terra;
credetti di averlo ucciso, e mi ritirai prontamente senza farmi
conoscere dalla Regina, che volli risparmiare, perché mia parente.
Il colpo dato al suo
amante era mortale: ma essa gli salvò la vita mercé incantesimi, in modo
per altro che può dirsi di lui non esser né vivo né morto. Com’io
attraversava il giardino per ritornare al Palazzo, intesi che la Regina
mandava altissime grida, e giudicando da ciò il suo dolore, fui contento
di averle lasciata la vita.
Entrato nel mio
appartamento tornai a coricarmi, e pago di aver punito il temerario che
m’aveva offeso, mi addormentai.
Svegliandomi il mattino, trovai la Regina adagiata vicino a me; mi alzai
senza fare alcun rumore, e passai nel mio gabinetto per finir di
vestirmi, poi andai a tener consiglio, ed al ritorno la Regina, vestita
a lutto, co’ capelli sparsi e in parte strappati, venne a presentarmisi
dinanzi.
— Sire — mi disse —
vengo a supplicar Vostra Maestà di non meravigliarsi se mi trova nello
stato in cui sono. Tre dolorose notizie ricevute ad un tempo ne sono la
giusta causa.
— E quali sono queste
novelle, signora? — le dissi.
— La morte della Regina
mia madre, quella del Re mio padre ucciso in battaglia, e quella d’uno
de’ miei fratelli caduto in un precipizio.
— Signora — le dissi —
anziché biasimare il vostro dolore vi assicuro d’esserne anch’io a
parte.
Ella ritirossi nel suo appartamento, passò un intero anno a piangere ed
a lamentarsi. Terminato questo tempo, mi domandò il permesso di far
fabbricare il luogo della sua sepoltura nel recinto del palazzo, ove
diceva voler dimorare fino all’ultimo suo giorno. Io glielo permisi.
Quando fu terminato vi
fece portare il suo amante. Ella aveva impedito ch’ei morisse insino
allora con bevande che gli facea prendere. Peraltro con tutti questi
incantesimi ella non poté guarire quello sciagurato, il quale, non solo
è impotente a camminare e a sostenersi, ma ha eziandio perduto l’uso
della parola.
La Regina non lasciava
di fargli due lunghe visite al giorno.
Un giorno andai per
curiosità al Palazzo delle Lacrime, per sapere qual fosse l’occupazione
di quella Principessa, e da un luogo donde non potevo esser veduto, la
intesi parlare in questi termini al suo amante:
— Son tre anni che non
mi avete detto una sola parola, e non rispondete nulla alle prove
d’amore ch’io vi do coi miei discorsi e coi gemiti. È per poco sentire o
per disprezzo? Oh tomba, avrai tu distrutto quell’eccesso di tenerezza
ch’egli aveva per me? Avrai tu chiusi quegli occhi che mi mostravano
tanto amore e formavano tutta la mia gioia? No, no, io non lo credo.
Dimmi piuttosto per qual miracolo sei divenuta la depositaria del più
raro tesoro della terra?
Vi confesso o signore,
che di tali parole, perché infine questo adorato, non era che un moro
indiano, originario di questo paese, io fui talmente indignato, che mi
scoprii bruscamente, e apostrofando a mia volta la medesima tomba,
esclamai:
— O tomba, perché non
inghiottì tu questo mostro che fa orrore alla Natura? O piuttosto perché
non consumi tu l’amante e la druda?
Non appena ebbi
terminate queste parole, che la Regina, la quale era seduta vicino al
moro, si alzò come una furia.
— Ah! crudele — mi disse
— sei tu la cagione del mio dolore! Non pensar che io l’ignori. Io ho
abbastanza dissimulato; fu la tua barbara mano che pose in questo stato
dolente l’oggetto dell’amor mio, e tu hai la crudeltà di venire ad
insultar un’amante disperata!
—
Sì, son io — la interruppi, trasportato dalla collera
— son io, che castigai questo mostro come ben
lo meritava, ed avrei dovuta trattar te nello stesso modo; mi pento di
non averlo fatto, ed è assai tempo che tu abusi della mia bontà.
Dicendo ciò, snudai la
sciabola ed alzai il braccio per punirla: ma ella, guardando
tranquillamente la mia mossa:
— Per la virtù de’ miei
incantesimi ti comando di diventar subito metà marmo e metà uomo.
All’istante o signore, io divenni come mi vedete, vivo tra i morti e
morto tra i vivi...
— Dopo che la cruda maga
m’ebbe così trasformato e fatto passare in questa sala, per un altro
incantesimo distrusse la mia capitale che era molto popolata e florida;
annientò le case, le piazze pubbliche ed i mercati, e ne fece lo stagno
e le campagne deserte che avete veduto. I pesci dei quattro colori che
sono nello stagno sono le quattro specie di abitanti di differenti
religioni che la componevano; i bianchi erano i Musulmani: i rossi i
Persiani adoratori del fuoco: i turchini i Cristiani, e i gialli gli
Ebrei; le quattro colline erano le quattro isole che davano il nome a
questo Regno.
Appresi ciò dalla maga,
che per colmo di afflizione mi annunziò ella medesima, questi effetti
della sua rabbia. Né ciò è tutto: essa non arrestò il suo furore alla
mia metamorfosi; viene ancora ogni giorno a darmi sulle spalle nude
cento colpi di nerbo di bue.
Terminato tale supplizio mi copre con una grossa stoffa di pelo di capra
e mi mette addosso questa veste di broccato, non per farmi onore, ma per
ischernirmi di me.
A questo punto il Re
delle Isole Nere proruppe in un dirotto pianto.
Infatti il Sultano
intrattenendosi col giovine Principe, dopo avergli manifestato, chi era
e perché era entrato nel castello, di svelò di aver immaginato uno
spediente per vendicarlo. Convennero sulle pratiche da farsi, e
l’esecuzione fu differita al giorno appresso.
La notte intanto essendo
molto inoltrata il Sultano si ritirò.
L’indomani il Sultano si
levò, e per cominciare la esecuzione del suo disegno, nascose in un
luogo l’abito esteriore che l’avrebbe impacciato, e andò al palazzo
delle Lacrime. Lo trovò illuminato da una infinità di torcie di cera
bianca, ed intese un odore delizioso. Come vide il letto ov’era nascosto
il moro, impugnò la sua sciabola e tolse senza resistenza la vita a quel
miserabile: ne trascinò il corpo nella corte del Castello e lo gettò in
un pozzo.
Dopo questa operazione
andò a coricarsi nel letto del moro, pose vicino a sé la sciabola sotto
le coltri, ed aspettò.
La maga giunse subito.
Prima sua cura fu di
andare nella camera ov’era il Re delle Isole Nere suo marito. Lo
spogliò, e cominciò a dargli sulle spalle cento colpi di nerbo di bue
con una barbarie senza esempio.
Dopo che la maga ebbe
dato i cento colpi di nerbo al Re suo marito, andò al Palazzo delle
Lacrime, ed entrandovi rinnovò i suoi pianti, i gridi e i lamenti; si
appressò al letto ove credea che fosse tuttavia l’amante, ed esclamò:
— Ah! mio sole, mia
vita, tuttavia serbate il silenzio? Siete voi risoluto di lasciarmi
morire senza darmi neppure la consolazione di dirmi che mi amate? Anima
mia ditemi almeno una parola, ve ne scongiuro!
Allora, il Sultano
fingendo di uscire da un profondo sonno, e contraffacendo il linguaggio
moresco, rispose d’un tono grave:
— Non vi è forza, né
potere che in Dio solo, ch’è onnipotente!
A
queste parole che non si aspettava, la maga esclamò:
— Mio caro signore, non
m’inganno io? È vero che voi parlate e ch’io vi ascolto?
— Sciagurata — disse il
Sultano — sei tu degna ch’io risponda ai tuoi discorsi?
— E perché mi fate voi
questi rimproveri? — replicò la Regina.
— I gridi — rispose egli
— i lamenti e i gemiti di tuo marito, che tu tratti sempre con tanta
indegnità, m’impediscono di dormir notte e giorno. Da gran tempo sarei
guarito ed avrei ricuperata la parola, se tu gli avessi tolto
l’incantesimo; ecco la cagione del mio silenzio di cui tu ti lamenti.
— Ebbene — disse la maga
— per calmarvi ed appagarvi son pronta a far quanto comanderete; volete
che io lo restituisca alle fattezze primiere?
— Sì — rispose il
Sultano — sollecita di metterlo in libertà affinché io non sia più
disturbato da’ suoi gridi.
La maga uscì subito dal
Palazzo delle Lacrime, prese una tazza di acqua e pronunciovvi sopra
delle parole. Andò alla sala dove era il giovine Principe suo marito, e
su lui gittò quell’acqua.
Appena ebbe terminato,
il Principe si alzò liberamente con tutta la gioia che può immaginarsi,
e ne rese grazia a Dio.
Intanto la maga tornò al
Palazzo delle Lacrime, ed entrando, siccome ella credeva di parlar
tuttavia al moro, gli disse:
— Caro amante, ho fatto
quanto m’avete ordinato; nulla or v’impedisce di levarvi su, e darmi la
soddisfazione di cui son priva da sì lungo tempo.
Il Sultano, continuando
a contraffare il linguaggio del moro, le rispose di un tuono severo:
— Ciò che hai fatto non
basta per guarirmi; hai tolto solo una parte del male; bisogna svellerlo
dalla radice. Va’ subito a ristabilire le cose nel loro stato primiero,
ed al tuo ritorno ti darò la mano, e tu mi aiuterai a levarmi.
La maga, piena di
speranza, partì sul momento, e come fu sulle rive dello stagno, presa un
po’ d’acqua in mano fece un’aspersione e dopo aver profferite alcune
parole sui pesci e sullo stagno, la città riapparve all’istante, i pesci
tornarono uomini, femmine e fanciulli, e Maomettani, Cristiani,
Persiani, Ebrei, liberi o schiavi, ciascuno prese la forma sua naturale.
Quanto alla maga, andò
immediatamente al Palazzo delle Lacrime per coglierne il frutto.
— Mio caro Signore —
gridò essa entrando — vengo a rallegrarmi con voi del ritorno della
vostra salute. Ho fatto quanto richiedeste da me; levatevi dunque e
datemi la mano.
— Appressati — disse il
Sultano contraffacendo sempre il linguaggio dei mori.
Essa obbedì.
Allora, levatosi, la
prese per il braccio sì rapidamente, ch’ella non ebbe il tempo di
ricomporsi, e con un colpo di sciabola fendé il corpo di lei in due
parti, che caddero ne’ lati opposti. Fatto ciò, lasciò quel cadavere sul
pavimento, e uscendo dal Palazzo delle Lacrime andò a trovare il giovine
Re delle Isole Nere, che lo aspettava con impazienza.
— Principe — gli disse
abbracciandolo — gioite: non avete più nulla a temere; la vostra crudele
nemica non è più!
Il giovine Principe
ringraziò il Sultano compreso di riconoscenza.
— Voi potete d’ora
innanzi — gli disse il Sultano — restar pacifico nella vostra capitale,
salvo che non vogliate venir nella mia che è vicina: io vi riceverò con
piacere e sarete onorato e rispettato come in casa vostra.
— Potente monarca, a cui
son tanto obbligato — rispose il Re — voi credete dunque d’esser molto
vicino alla vostra capitale?
— Sì, lo credo — rispose
il Sultano — non vi sono che quattro o cinque ore di cammino.
— Vi è un anno intero di
viaggio — riprese il giovane Principe. — Voglio credere che voi siate
venuto qui dalla capitale nel breve tempo che voi dite, ma ora le cose
sono tutte mutate. Ciò non impedirà a me di seguirvi, foss’anche in capo
al mondo. Voi siete il mio liberatore, e per darvi durante tutta la mia
vita delle prove di riconoscenza, intendo accompagnarvi.
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