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Mille e una notte

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STORIA DELLA PRINCIPESSA DI DERYABAR

Giace in certa isola, una grande città chiamata Deryabar. Per lungo tempo è stata governata da un re potente, magnifico e saggio. Questo principe non aveva posterità, e ciò solo mancava a renderlo pienamente felice. Dopo una lunga aspettazione, non dette alla luce se non una femmina.

Questa sventurata principessa sono io; mio padre mi fece allevare con tutta la cura che concepir si possa, avendo risoluto, in mancanza di maschi, d’insegnarmi l’arte di regnare.

Un giorno nel quale stava alla caccia, vide un asino selvaggio che egli inseguì, separandosi dai cacciatori, ed il suo ardire trasportollo tanto lungi, che, senza accorgersi di fuorviare, corse sino alla notte. Appena il sole fu tramontato, osservò fra gli alberi un lume che fecegli giudicare non essere egli molto lontano da qualche villaggio.

Conobbe ben presto di essersi ingannato; perocché quel lume non era altro se non un fuoco acceso in una capanna. Accostossi e con grande stupore vide un gran d’uomo nero o per meglio dire uno spaventevole gigante, che stava assiso sopra uno strato. Il mostro teneva davanti a sé un gran fiasco di vino e faceva arrostire sui carboni accesi un bue che aveva scannato. Ora appressava alla sua bocca il fiasco, ed ora appressava il bue, mangiandone qualche pezzo: ma ciò che maggiormente attrasse l’attenzione del re mio padre, fu una bellissima donna, che egli vide nella capanna, e che pareva immersa in una profonda mestizia. Essa aveva le mani legate, e vedevasi a’ suoi piedi un fanciullo di due o tre anni.

Mio padre, commosso da questo pietoso spettacolo, scaricò una freccia e l’infisse nello stomaco del gigante, il quale restò ferito e cadde a terra senza spirito.

Mio padre entrato nella capanna slegò le mani della donna, ricercandole chi fosse, e per quale accidente si trovasse colà.

— Signore — gli rispose essa, — vi sono sopra le sponde del mare certe famiglie di saraceni, i quali hanno per capo un principe il quale è mio marito. Quel gigante che avete ucciso, era uno dei suoi principali. Questo miserabile concepì per me una violenta passione che nascose fino a che poté trovare una occasione favorevole di eseguire il disegno formato di rapirmi.

Un giorno il gigante mi sorprese col mio figliuolo in un luogo remoto, e rapitici entrambi, per rendere inutili tutte le perquisizioni ch’egli giustamente s’immaginava che mio marito farebbe di questo ratto, si allontanò dal paese abitato dai saraceni e ci condusse in questo bosco, ove mi ritiene da molti giorni.

— Questa, o signore — continuò la moglie del principe dei saraceni — è la mia storia; né dubito che voi non mi consideriate degna di pietà per non pentirvi di avermi soccorsa con tanta generosità.

— Sì, o signora — le rispose mio padre — le vostre disgrazie mi hanno vivamente commosso: e non mancherò di fare in modo che la vostra sorte non divenga migliore. Domani, subito che sarà sorto il giorno, partiremo da questo bosco! rintraccieremo la via che conduce alla grande città di Deryabar della quale io sono il sovrano; colà albergherete nel mio palazzo fino a tanto che il principe vostro marito non verrà a prendervi.

La principessa saracena accettò la proposta, e il giorno seguente seguì il re mio padre.

Intanto il figliuolo di questa principessa divenne grande, ed essendo assai vago e non mancando di spirito, trovò il mezzo d’incontrare il genio del re mio padre, il quale gli pose molto affetto.

I cortigiani se n’accorsero tutti e giudicarono che quel giovane mi avrebbe potuto sposare. Il re, ritardando troppo, a suo parere, di offerirgli la mia mano, quegli ebbe la temerità di chiedergliela. Benché il suo ardire meritasse un severo castigo, pure mio padre si contentò di dirgli, che altre mire teneva sopra di me.

Il giovine restò molto sdegnato di simile rifiuto; risolse di vendicarsi del re, e con una ingratitudine, della quale vi sono pochi esempi, cospirò contro di lui, e pugnalatolo, si fece proclamar re di Deryabar da un gran numero di persone perverse, delle quali seppe lusingare il malnato desiderio.

Nel mentre ch’egli stavasene occupato a strangolar mio padre, il gran Visir, il quale a mio padre era sempre stato fedele, mi venne a rapir dal palazzo, e mi pose in sicuro in casa di uno del suoi amici, ove mi tenne finché un vascello, segretamente preparato, fu in istato di porsi alla vela. Me ne uscii allora dall’isola accompagnata solamente da una governante e dal generoso ministro.

Dopo diversi giorni di navigazione, sorse una tempesta tanto impetuosa, che nonostante tutta l’arte dei nostri marinai, il nostro vascello, trasportato dalla violenza del vento e dell’onde, si franse contro uno scoglio. Perdetti il sentimento, e quando ebbi ricuperato i sensi mi ritrovai sulla spiaggia.

Udii dietro di me un grande strepito di uomini e di cavalli. Volsi subito il capo per vedere ciò che fosse, e vidi molti cavalieri armati, fra i quali uno ve n’era salito sopra un cavallo arabo. Aveva desso una veste riccamente ricamata d’argento con una cintura di gioie, e portava una corona sul capo.

Egli era un giovine ben fatto e più bello del sole. Mi guardò con molta attenzione, e siccome io non cessava di piangere:

— Signora — mi disse — io vi scongiuro di moderare l’eccesso della vostra afflizione. Vi offro il mio palazzo, ove starete presso la regina mia madre, la quale si sforzerà coi suoi buoni trattamenti a raddolcire un poco le vostre pene.

La regina mostrossi sensibilissima alle mie sciagure e concepì verso di me un grandissimo amore. Il re suo figliuolo dal canto suo divenne ciecamente innamorato di me, e mi offrì in breve la sua mano. Era talmente occupata dalle mie disgrazie che il principe, per quanto amabile fosse, non fece in me tutta l’impressione che avrebbe potuto fare in altro tempo. Nonpertanto, penetrata da gratitudine, non ricusai di formare la sua felicità: ed il nostro matrimonio si contrasse con tutta la pompa immaginabile.

Mentre tutto il popolo stava occupato a celebrare gli sponsali del suo sovrano, un principe vicino e nemico se ne venne una notte a fare una discesa nell’isola con un gran numero di combattenti. Questo formidabile nemico era il re di Zanguebar. Sorprese ognuno, e tagliò a pezzi tutti i sudditi del principe mio marito. Poco vi mancò non pigliasse anche noi, giacché si era già introdotto nel palazzo con una parte delle sue genti: ma ritrovammo mezzo di porci in salvo, e di giungere alla riva del mare, ove ci gettammo in una barca di pescatori, che avemmo la fortuna di trovarvi.

Il terzo dì scorgemmo un vascello che veniva a noi a gonfie vele, e ne fummo lieti; ma fummo maravigliati quando, essendosi avvicinato a noi, dieci o dodici corsari apparvero armati sul ponte. Venuti all’arembaggio, cinque o sei tra essi si gettarono nella nostra barca, s’impadronirono di noi, legarono il principe mio marito, e ci fecero passare nel loro vascello.

La mia gioventù ed i miei lineamenti scossero tutti quei pirati, e riscaldandosi vennero alle mani combattendo come furiosi. Il ponte in un momento fu coperto di cadaveri. Da ultimo si uccisero tutti, tranne uno solo che vedutosi signore della mia persona, mi disse:

— Voi siete mia, ed io vi condurrò al Cairo per darvi ad uno dei miei amici, cui ho promesso una bella schiava.

Ciò detto si rivolse allo sciagurato mio marito che stava legato e lo gettò in mare.

Eran già parecchi giorni ch’eravamo in cammino allorché passando ieri per questa pianura scorgemmo il moro che abitava in questo castello. Egli trasse la sua larga scimitarra, ed il pirata cadde sotto i colpi del suo avversario, come pure tutti i suoi schiavi, i quali amaron meglio morire che abbandonarlo. Dopo ciò il moro mi condusse in questo castello, ove portò il corpo del pirata, che mangiossi a cena.

La principessa com’ebbe terminata la narrazione delle sue avventure, Codadad le manifestò ch’egli era vivamente commosso.

— Ma, signora — aggiunse egli — ormai non dipende che da voi il vivere tranquillamente. I figliuoli del re di Harran vi offrono un asilo nella Corte del padre loro: accettatelo, di grazia. Voi sarete la prediletta di quel principe, e rispettata da ciascuno, e se non isdegnate la mano del vostro liberatore, soffrite ch’io ve la porga e che vi sposi innanzi a tutti questi principi, affinché sieno testimoni della nostra scambievole fede.

La principessa avendovi acconsentito, nel giorno stesso si fecero le nozze nel castello, ove si trovarono ogni specie di provvisioni.

— Codadad prese la parola e disse:

— Principi, è troppo lungo tempo che vi celo chi io mi sia. Vedete in me il vostro fratello Codadad. Io debbo altresì come voi la vita al re di Harran. Il principe di Samaria mi ha allevato, e la principessa Pirouzè è mia madre.

I principi felicitarono Codadad della sua nascita e gliene dimostrarono molta gioia: ma nel fondo del loro cuore, il loro odio per un tanto amabile fratello non fece che aumentarsi.

Eglino si radunarono la notte, e si ritirarono in un luogo remoto, mentre Codadad e la principessa sua moglie gustavano, sotto la loro tenda, le dolcezze del sonno. Quegl’ingrati, quegl’invidiosi fratelli, dimenticando che senza il coraggioso figlio di Pirouzè sarebbero tutti divenuti preda del moro, risolsero tra essi di assassinarlo.

Andarono immantinenti a trovar Codadad addormentato e lo trafissero. Lasciandolo esanime nelle mani della principessa, partirono per andare alla città di Harran, ove giunsero il giorno successivo. Il loro arrivo cagionò tanta gioia al re loro padre, in quanto che egli disperava di rivederli.

Intanto Codadad, immerso nel proprio sangue, e poco differendo da un uomo morto, stava sotto la sua tenda colla principessa sua moglie che non sembrava meno di lui da compiangere. Ella faceva echeggiar l’aria di pietose grida, si strappava i capelli, bagnando delle sue lacrime il corpo di suo marito.

Peraltro egli non era morto, e sua moglie, essendosi avveduta che respirava, corse verso un grosso borgo che vide nella pianura, per cercarvi un chirurgo. Gliene fu insegnato uno, che partì sul momento con lei: ma quando giunsero sotto la tenda, non vi trovarono Codadad il che fece creder loro che qualche bestia feroce l’avesse rapito per divorarlo.

La principessa ricominciò i suoi pianti e i suoi lamenti nel più pietoso modo. Il chirurgo ne fu intenerito, e non volendo abbandonarla nello stato spaventevole in cui la vedeva, le propose di ritornare nel borgo offrendole la sua casa e i suoi servigi.

Ella si lasciò trascinare.

— Signora — le disse egli — confidatemi di grazia tutte le vostre sciagure, ditemi di quale paese e di quale condizione siete, forse potrò darvi dei buoni consigli quando sarò istruito di tutti i particolari della vostra sventura.

Essa gli raccontò tutte le sue avventure e quando ne ebbe terminata la narrazione, il chirurgo riprese la parola e disse:

— Signora, poiché le cose stanno in questa guisa, dovete vendicare vostro marito. Io, se lo permettete, vi servirò da scudiero. Andiamo alla corte del re di Harran, il quale è un principe buono e molto equo, cui non avete che a dipingere coi più vivi colori il trattamento che il principe Codadad ha ricevuto dai suoi fratelli, e son persuaso che vi farà giustizia.

Non appena ebbe presa questa risoluzione che il chirurgo fece apprestare due cammelli, sui quali la principessa ed egli saliti, si posero in cammino verso la città di Harran.

Quivi andarono a discendere al primo caravanserraglio che incontrarono e chiesero all’oste notizie della Corte.

— Dessa è — diss’egli — in una grandissima agitazione. Il re aveva un figliuolo, il quale come un ignoto ha vissuto lungo tempo alla sua Corte e non si sa che sia divenuto di quel giovine principe.

Il chirurgo volendo condursi prudentemente in quella occasione, pregò la principessa a voler rimanere al caravan-serraglio, mentre egli sarebbe andato al palagio.

Egli adunque andò alla città; allorquando scorse una signora salita sur una mula riccamente bardata, e seguita da molte damigelle altresì montate su mule e da un grandissimo numero di guardie e di schiavi neri.

Il chirurgo la salutò e chiese poscia ad un calender che gli stava vicino se quella signora era una moglie del re.

— Sì fratello — gli rispose il Calender — la è una delle sue mogli e la più diletta dal popolo, perché ella è madre del principe Codadad.

Il chirurgo non volle saper di più.

Egli seguì Pirouzè fino ad una moschea, ove quella entrò per distribuire delle elemosine. Il chirurgo ruppe la folla e si avanzò fino alle guardie di Pirouzè.

Egli assistette a tutte le preghiere, e quando quella principessa uscì, avvicinatosi ad uno schiavo, gli disse all’orecchio:

— Fratello, ho un segreto importante a rivelare alla principessa Pirouzè; non potrei, per mezzo vostro, essere introdotto nel suo appartamento?

— Se questo segreto — rispose lo schiavo — riguarda il principe Codadad, oso promettervi che fin da oggi avrete da lei l’udienza che desiderate.

— È appunto di questo, caro figliuolo, che io voglio parlare — rispose il chirurgo.

— Ciò stante — disse lo schiavo — voi non avete se non a seguirmi fino al palagio, e le parlerete subito.

Effettivamente quando Pirouzè fu ritornata nell’appartamento, quello schiavo disse che un uomo sconosciuto aveva qualche segreto d’importanza a comunicarle, e che il principe Codadad vi era interessato.

Non ebbe appena pronunciato queste parole, che Pirouzè mostrò una viva impazienza di veder quell’uomo sconosciuto.

Lo schiavo lo fece immantinente entrare nel gabinetto della principessa, la quale congedò tutte le sue donne, tranne due per cui non aveva nulla di nascosto. Come vide il chirurgo, gli domandò ansiosamente quali nuove di Codadad avesse ad annunziarle.

Allora egli le fece una narrazione di tutto l’accaduto fra Codadad ed i suoi fratelli, ciò ch’ella ascoltò con avida attenzione. Quand’ebbe terminato, quella principessa gli disse:

— Andate a ritrovare la principessa Deryabar, e rassicuratela da parte mia che presto il re la riconoscerà per sua nuora, e quanto a voi, siate persuaso che i vostri servigi saranno ben ricompensati.

Dopo che il chirurgo fu uscito, Pirouzè rimase immersa nell’afflizione che di leggieri può immaginarsi.

Il re entrò nel gabinetto, e vedendola in quello stato, chiese a Pirouzè se avesse ricevuto tristi novelle di Codadad.

— Ah! signore — gli diss’ella — è finita! Il mio figliuolo ha perduta la vita, e per colmo di afflizione, non posso rendergli nemmeno gli onori della sepoltura, poiché secondo tutte le apparenze le bestie selvaggie l’hanno divorato.

In pari tempo le raccontò tutto quello che il chirurgo le aveva detto, e non mancò di dilungarsi sul modo crudele in cui Codadad era stato trattato dai suoi fratelli.

Il re senza dar tempo a Pirouzè di terminar il suo racconto, sentì infiammarsi dalla collera, e cedendo al suo trasporto, disse alla principessa:

— Signora, i perfidi che fanno spargere le vostre lacrime, e che cagionarono al padre loro un dolore mortale, proveranno un giusto castigo!

Ciò detto, quel principe col dolore dipinto sul viso, andò nella sala d’udienza e salito sul suo trono, fece cenno al suo gran Visir d’avvicinarsi, e gli disse:

— Hassan, ho un ordine a darti: va’ tosto a prender teco mille uomini della mia guardia, ed imprigiona tutti i miei figliuoli. Rinchiudili nella torre destinata a servir di prigione agli assassini, e ciò sia fatto al momento.

Ciò detto uscì dalla camera d’udienze e ritornò nell’appartamento di Pirouzè col Visir, che lo seguì.

Avendo chiesto alla principessa ove stesse d’albergo la vedova di Codadad, le donne di Pirouzè glielo dissero, giacché il chirurgo non lo aveva dimenticato nel suo racconto.

Allora il re, volgendosi al suo ministro:

— Va’ — gli disse — in quel caravan-serraglio, e conducimi qui una principessa che vi alberga, trattandola con tutto il rispetto.

La principessa di Deryabar trovò il re che l’aspettava alla porta del palagio per riceverla.

Presala per mano la condusse all’appartamento di Pirouzè.

Finalmente la principessa di Deryabar, superando il suo interno affanno, narrò loro l’avventura del castello e la disgrazia di Codadad, dopo di che chiese giustizia del tradimento dei principi.

— Sì, o signora — le disse il re — quegl’ingrati periranno: ma è d’uopo far pubblicare prima la morte di Codadad, affinché il supplizio dei suoi fratelli non inciti a ribellione i miei sudditi. D’altra parte, avvegnaché non possediamo il corpo del mio figliuolo, non bisogna tralasciare di rendergli gli ultimi onori.

Dopo ciò si rivolse al suo Visir, e gl’impose di far edificare una cupola di marmo bianco, in una bella pianura, nel cui mezzo ergevasi la città di Harran, e da ultimo dette nel suo palagio un bellissimo appartamento alla principessa di Deryabar, ch’egli riconobbe per sua nuora.

Hassan fece eseguire il tutto con tanta sollecitudine, ed adoperandovi tanti operai che in pochi dì la cupola fu fabbricata.

Appena terminata l’opera, il re ordinò delle preci, e destinò un giorno pel funerale di suo figlio.

L’indomani si fecero pubbliche preghiere nella moschea, le quali si continuarono per otto giorni consecutivi.

Il nono, il re risolse di far mozzare il capo ai principi suoi figliuoli, e tutto il popolo indignato pel trattamento che essi avevan fatto a Codadad, sembrava aspettare con impazienza il loro supplizio. Laonde s’incominciarono a costruire i patiboli: ma si fu costretti rimetterne l’esecuzione ad un altro tempo, perciocché si seppe improvvisamente che i principi vicini, i quali avevan già rotto guerra al re di Harran si avanzavano con eserciti numerosi più della prima volta.

Il re non li ebbe appena scorti, che ordinò eziandio e dispose le sue schiere alla pugna.

Fece batter la carica, e gli assaltò con estremo vigore. I nemici, ciononpertanto gli tennero fronte degnamente.

Dall’una e dall’altra parte si sparse molto sangue, e la vittoria restò per lungo tempo incerta: ma infine stava per dichiararsi a favore dei nemici del re di Harran, i quali essendo in maggior numero stavano per avvilupparlo, quando si vide apparire dalla pianura una grossa schiera di cavalieri che si avvicinò ai combattenti in buon ordine.

La vista di quei nuovi soldati maravigliò i due partiti, non sapendo ciò che dovessero pensarne: ma non rimasero molto tempo nell’incertezza, poiché quei cavalieri si scagliarono contro i nemici del re di Harran e li sbaragliarono.

Il re di Harran, che aveva osservato con molta attenzione tutto quello che era accaduto, aveva ammirato l’audacia di quei cavalieri, il cui soccorso inopinato aveva fatta risolvere la vittoria in suo favore.

Sopratutto era rimasto meravigliato del loro capo, da lui veduto combattere con un grandissimo valore. Egli desiderava sapere il nome di quell’eroe generoso, ed impaziente di vederlo e ringraziarlo, gli andò incontro.

Quei due principi si avvicinarono, e il re di Harran, riconoscendo Codadad in quel bravo guerriero che lo aveva soccorso, o meglio che aveva combattuto i suoi nemici, rimase immobile.

— Ah! figliuol mio — esclamò il re è egli possibile che mi siate reso? Ahimè! io disperava di rivedervi.

Ciò detto, tese le braccia al giovane principe, che si abbandonò ad un sì dolce amplesso.

— Io so tutto, figliuol mio — aggiunse il re — è stata la principessa di Deryabar che mi ha dato contezza di ogni cosa, poiché dessa sta nel mio palagio, e non vi è venuta se non per chiedermi giustizia del delitto commesso dai vostri fratelli.

Codadad fu trasportato dalla gioia nel sapere che la principessa sua moglie stava alla Corte.

— Andiamo, signore — esclamò egli con trasporto — andiamo a trovar mia madre, la quale ci aspetta. Io ardo d’impazienza di terger le sue lacrime, come pure quelle della principessa di Deryabar.

Questi due principi trovarono Pirouzè e la sua bella nuora che aspettavano il re, per felicitarlo.

Ma furono inesprimibili i trasporti di gioia da cui furon comprese quando videro il giovane principe che l’accompagnava.

Dopo che quelle quattro persone ebbero soddisfatto a tutt’i moti che il sangue e l’amore ispiravano, si chiese al figliuolo di Pirouzè per qual miracolo fosse ancora vivo.

Egli rispose che un contadino salito sopra una mula, essendo entrato per caso nella tenda ov’egli stava, vedendolo solo e trafitto da tante ferite, l’aveva legato sulla mula e condotto alla sua casa, ove aveva applicato alle sue ferite certe erbe che lo avevano ristabilito in pochi giorni.

Quand’ebbe terminato di parlare, il re disse:

— Rendiamo grazie a Dio per aver conservato Codadad. Ma egli è d’uopo periscano tutti i traditori che l’hanno voluto uccidere!

— Signore — rispose il generoso figliuolo di Pirouzè — per quanto sieno ingrati ed iniqui, pensate che il vostro sangue scorre nelle loro vene. Essi sono miei fratelli, epperò perdono loro il delitto, implorando da voi grazia per essi.

Il re accondiscese alla generosità di Codadad ed i suoi fratelli finalmente cessarono d’odiarlo e vissero lunghi anni in pace e prosperità.