STORIA DELLA DAMA TRUCIDATA E DEL GIOVANE SUO MARITO
Commendatore de’ credenti, la dama trucidata
era mia moglie, figlia di questo vecchio, il quale è mio zio paterno. Ho
da lei avuto tre figliuoli maschi tuttora vivi, e deggio renderle questa
giustizia che non mi ha dato mai il menomo motivo di dispiacere.
Son circa due mesi che cadde ammalata. N’ebbi
tutta la cura immaginabile, nulla risparmiai per procurarle una pronta
guarigione.
A capo d’un mese ella cominciò a star bene e
volle andare al bagno.
Prima di uscir di casa mi disse:
— Cugino mio — poiché così per famigliarità
mi chiamava — ho una voglia di mangiar dei pomi: mi fareste un piacere
estremo se potreste trovarmene.
— Molto volentieri — le risposi — corro
subito per vedere se mi è dato di accontentarvi.
Andai per tutti i giardini, ma non ebbi
successo. Incontrai un vecchio giardiniere, il quale mi disse, che per
quanto io mi potessi affaticare, non ne avrei trovato se non nel
giardino di Vostra Maestà a Bassora.
Siccome io amavo mia moglie, e non volevo
punto rimproverarmi d’aver trascurato di soddisfarla, dopo averla fatta
consapevole del mio disegno, partii per Bassora; fui di ritorno a capo
di quindici giorni.
Portai meco tre pomi, costatimi uno zecchino
ciascuno. Appena giunto li presentai a
mia moglie, ma già le era passata la voglia. Però ella si contentò di
riceverli, e li posò presso di sé.
Pochi giorni dopo il mio viaggio, stando
seduto nella mia bottega, vidi passare un grosso schiavo nero, il quale
aveva in mano un pomo di quelli da me recati da Bassora. Chiamai allora
lo schiavo a me, e gli dissi:
— Buon schiavo, insegnami, ti prego, ove hai
preso cotesto pomo?
— È — mi rispose — un
dono che mi ha fatto la mia innamorata. Sono stato oggi a vederla e l’ho
trovata un po’ ammalata. Ho visto a lei vicino tre pomi, e ho domandato
donde gli avesse avuti; mi ha risposto che il buon uomo di suo marito
avea fatto un viaggio di quindici giorni a bella posta per andarglieli a
cercare. Abbiamo fatto colazione insieme, e nel lasciarla ho portato via
questo.
Mi alzai dal mio posto, e dopo aver chiusa la
bottega corsi a casa in tutta fretta e salii alla camera di mia moglie.
Guardai dapprima dove stavano i pomi, e avendone scorti due soli,
domandai dove fosse l’altro.
— Cugino mio — rispose freddamente — non so
che cosa ne sia avvenuto.
Nel punto stesso mi lasciai trasportare dalla
gelosia, e traendo il coltello appeso alla mia cintura, l’immersi nel
seno di quella miserabile. Quindi le tagliai la testa, la feci a pezzi,
poscia la nascosi in un baule che caricai sulle mie spalle appena fu
fatta notte, e andai a gittarlo nel Tigri.
I due miei figliuoli
più piccoli eransi già coricati e dormivano, il terzo era fuori di casa:
lo trovai al mio ritorno seduto presso la porta e piangendo a calde
lacrime.
Gli chiesi il motivo del suo pianto.
— Padre mio — mi disse — stamani ho preso a
mia madre, senza che ella se ne sia avveduta, uno de’ tre pomi che voi
le avete arrecati; ma stando non ha guari a giuocar nella strada co’
miei fratellini, un grosso schiavo che passava me l’ha strappato di
mano, e l’ha portato via: gli son corso dietro domandandoglielo, ma
tutto è stato inutile. Non ha voluto rendermelo.
Terminate queste parole ei raddoppiò le sue
lacrime.
Il discorso di mio figlio mi gettò in una
inconcepibile afflizione.
Riconobbi allora l’enormità del mio delitto,
e mi pentii, ma, troppo tardi, d’aver dato retta alle imposture dello
sciagurato schiavo.
Mio zio, qui presente, giunse in quel
momento: egli veniva per vedere sua figlia, ma invece di trovarla viva,
seppe da me stesso ch’ella più non esisteva, poiché nulla gli celai.
Il Califfo rimase estremamente attonito di
quanto avea raccontato il giovane:
— Il malvagio schiavo — disse — è l’unica
causa dell’uccisione, egli è il solo che bisogna punire; per la qual
cosa — continuò volgendosi al gran Visir — ti do tre giorni per
trovarlo, altrimenti ti farò morire in sua vece.
Lo sventurato Giafar,
il quale si era creduto fuor di pericolo, rimase oppresso da questo
nuovo ordine del Califfo. Passò i due primi giorni ad affliggersi colla
sua famiglia intorno a lui lagnandosi del rigore del Califfo. Venuto il
terzo, ei si dispose a morire con fermezza, come un ministro integro, e
nulla avendo a rimproverarsi.
Frattanto giunse un usciere del palagio, il
quale gli disse che il Califfo s’impazientava per non avere né nuove di
lui, né dello schiavo nero: Ed ho ordine — aggiunse — di condurvi
innanzi al suo trono.
L’afflitto Visir si pose in ordine per
seguire l’usciere, ma stando per uscire gli condussero la più piccola
delle sue figlie la quale poteva aver cinque o sei anni, affinché la
vedesse per l’ultima volta.
Siccome egli nutriva per lei una particolare
tenerezza, si accostò a sua figlia, la prese tra le braccia e la baciò
parecchie volte. Baciandola si accorse che ella aveva in seno qualche
cosa di voluminoso che tramandava odore.
— Mia carina — le disse — che cosa avete in
seno?
— Mio caro padrone — gli rispose — gli è un
pomo sul quale è scritto il nome del Califfo nostro signore e padrone.
Rihan, nostro schiavo, me l’ha venduto per due zecchini.
Alla voce di pomo e di schiavo il gran Visir
Giafar diede un grido di sorpresa mista a una gioia indicibile, e
mettendo tosto la mano in seno a sua figlia, ne trasse il pomo.
Egli fece chiamare lo schiavo, che non era
lungi, e quando gli fu dinanzi, egli disse:
— Briccone, ove hai tu preso questo pomo?
— Signore — rispose lo schiavo — vi giuro di
non averlo rubato né in casa vostra,
né nel giardino del Commendatore de’ credenti. L’altro giorno, passando
per una strada, un fanciulletto lo teneva in mano; glielo strappai e
glielo portai via.
Giafar condusse seco lo schiavo, e quando fu
innanzi al Califfo, fece a questo Principe un minuto ed esatto racconto
di quanto gli avea detto lo schiavo.
Il Califfo disse al gran Visir che il suo
schiavo meritava una punizione.
— Non posso sconvenire — rispose il Visir —
ma il suo delitto non è irremissibile. So una storia più sorprendente di
un Visir del Cairo, chiamato Noureddin Alì, e di Bedreddin Hassan di
Bassora.
— Raccontatela — riprese il califfo — ma voi
vi impegnate in una grande impresa, e non credo che possiate salvare il
vostro schiavo.
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