NOVELLE
STORIA DEL TERZO CALENDER
Io mi chiamo Agib e son figlio di un Re,
il quale chiamavasi Cassib. Dopo la sua morte presi possesso de’
suoi Stati.
Primieramente visitai le provincie, poi feci
equipaggiare la mia flotta e andai nelle mie isole per conciliarmi colla
mia presenza il cuore dei sudditi. Tali viaggi avendomi fatto acquistare
qualche conoscenza della navigazione, mi fecero prender tanto piacere,
che risolvetti di fare delle scoperte al di là delle mie isole.
Dopo dieci giorni di navigazione, un marinaio
di guardia rapportò che a destra ed a sinistra non si vedeva che cielo e
mare: ma dirimpetto, cioè dalla parte di prua, eravi una gran macchia
nera.
A tale notizia il pilota cangiò colore; con
una mano gittò il turbante sulla tolda, e coll’altra battendosi il volto
esclamò:
— Ah! sire, siamo perduti! Io gli domandai
qual ragione avesse per disperarsi tanto, ed ei mi rispose:
— Ah! Sire, domani a mezzogiorno ci troveremo
presso quella macchia oscura chiamata la montagna nera, la quale
non è altro se non una miniera di calamita. Sulla sommità della medesima
evvi una cupola di bronzo fino sostenuta da colonne dello stesso
metallo; al disopra si eleva un cavallo che ha il petto coperto di una
piastra di piombo, sulla quale vi sono incisi dei caratteri talismanici.
La tradizione, o Sire, dice che quella statua
è la cagione principale per cui tanti vascelli e tanti uomini sono stati
finora sommersi in questo luogo.
L’indomani scoprimmo chiaramente la montagna
nera, e l’idea che ne avevano concepita ce la fece comparire
maggiormente spaventevole. A mezzo giorno ci trovammo così vicini da
esperimentare tutto quanto ci aveva predetto il pilota.
Vedemmo volare i chiodi e tutti gli altri
ferramenti della flotta verso la montagna, ove per la violenza
dell’attrazione vi si attaccavano con un orribile fracasso.
Tutta la mia gente fu sommersa: ma Dio ebbe
pietà di me e permise ch’io mi salvassi, afferrandomi ad una tavola, che
fu spinta dal vento al piede della montagna. Non mi feci alcun male,
avendomi la fortuna fatto approdare in
un luogo ov’erano dei gradini per salire sino alla sommità. Alla vista
di quei gradini cominciai a salire, giunto alla sommità entrai sotto la
cupola, e prostrandomi in terra ringraziai Dio della grazia fattami.
Passai la notte sotto quella cupola, e mentre dormivo mi apparve un
vecchio venerabile, il quale mi disse:
— Agib, ascolta: quando sarai svegliato,
scava sotto i tuoi piedi la terra, vi troverai un arco di bronzo e tre
frecce di piombo. Scocca le tre frecce contro la statua; il cavaliere
cadrà nel mare ed il cavallo vicino a te, e tu lo sotterrerai nel luogo
ove avrai tratto le frecce. Fatto ciò, il mare si gonfierà e salirà fino
al piede della cupola alla cima della montagna; allora vedrai approdare
una scialuppa, contenente un uomo di bronzo, ma diverso da quello
rovesciato. Imbarcati con lui senza profferire il nome di Dio e lasciati
condurre.
Tale fu il discorso del vecchio, e quand’io
fui svegliato, non mancai di eseguirne il consiglio. Dissotterrai l’arco
e le frecce, e le trassi contro il cavaliere. Alla terza frecciata lo
rovesciai in mare, e il cavallo cadde vicino a me. Lo sotterrai
dov’erano prima l’arco e le frecce, ed in quel frattempo il mare si
gonfiò a poco a poco. Quando fu arrivato al piede della cupola, vidi da
lungi sul mare avvicinarmisi una scialuppa. La scialuppa approdò, e vidi
l’uomo di bronzo come mi era stato dipinto. M’imbarcai, guardandomi bene
di profferire il nome di Dio. Mi sedei e l’uomo di bronzo cominciò a
vogare, allontanandosi dalla montagna. Vogò senza posa fino al nono
giorno, quando vidi isole che mi fecero sperare di poter essere subito
fuori del temuto pericolo.
L’eccesso della gioia mi fece obliare la
proibizione fattami, e dissi:
— Dio sia benedetto! Dio sia lodato!
Non ebbi appena terminate tali parole, che la
scialuppa si affondò coll’uomo di bronzo. Io restai sull’acqua, e nuotai
il resto del giorno dirigendomi verso terra.
Successe un’oscurissima notte, nuotai alla
ventura, finché esauritesi le mie forze, disperai di salvarmi; quando,
rinforzatosi il vento, un’onda più alta d’una montagna mi gettò su d’una
spiaggia.
Il giorno dopo, mi avvidi di trovarmi in una
piccola isola disabitata.
Nel mentre ch’io rimetteva a Dio la cura di
disporre della mia sorte secondo la
sua volontà, scopersi un piccolo bastimento che veniva a gonfie vele
verso l’isola. Salii sopra un albero foltissimo, da dove potea, non
visto, osservare ogni cosa. Il bastimento venne a situarsi in un piccolo
seno; sbarcarono dieci schiavi, portanti una pala ed altri strumenti
adatti a svolgere la terra. Camminarono verso il mezzo dell’isola ove li
vidi arrestarsi e smuover per qualche tempo il terreno; dai loro atti mi
parve che sollevassero una botola. Tornarono poscia al bastimento,
sbarcarono molte specie di provvigioni ed ognuno se ne fece un carico,
che portò dove avevano smossa prima la terra, e vi discesero: ond’io
compresi esservi un sotterraneo. Li vidi un’altra volta andare al
vascello ed uscirne con un vecchio, che conduceva seco un giovane
bellissimo di quattordici o quindici anni. Tutti discesero ov’era levata
la botola, e quando furono risaliti, abbassata e ricopertala di terra,
si diressero verso il naviglio.
Mi accorsi allora che il giovane non era con
loro, e perciò conchiusi esser lui rimasto nel sotterraneo, e ne restai
maravigliato.
Il vecchio e gli schiavi s’imbarcarono, e il
bastimento, sciolte le vele, riprese la via del continente.
Quando lo vidi tanto lungi da non essere
scoperto dall’equipaggio, scesi dall’albero e andai difilato al luogo
dove avea veduto smuovere la terra. La smossi io pure, finché trovata
una pietra, l’alzai e vidi che copriva l’entrata d’una scala pure di
pietra; scesi, e mi trovai al basso in una grande stanza, ove un giovine
stava seduto con un ventaglio in mano.
Questi fu sorpreso nel vedermi, ma, per
rassicurarlo, gli dissi entrando:
— Chiunque siate, o signore, non temete di
nulla.
Un Re figliuolo di Re come io sono, non è
capace di farvi la menoma ingiuria.
Il giovane si rassicurò a tali parole, e
pregommi con volto ridente a sedermi vicino a lui; poscia mi disse:
— Principe, v’intratterrò di cose che vi
faranno meraviglia, tanto sono singolari. Mio padre da lungo tempo era
ammogliato senza avere figliuoli, quando fu avvertito in sogno che
avrebbe avuto un figlio, la cui vita non sarebbe di lunga durata, il che
gli procurò molta pena. Alcuni giorni dopo, mia madre annunziogli
d’essere incinta, e il tempo in cui credeva aver concepito corrispondeva
col giorno del sogno: essa si sgravò di me e si fece nella famiglia gran
tripudio. Mio padre, che aveva
esattamente osservato il momento della mia nascita, consultò gli
astrologhi i quali gli dissero:
— Vostro figlio vivrà senza accidenti fino
all’età di quindici anni: ma allora, correrà rischio di perder la vita.
A quel tempo, aggiunsero, la statua equestre
di bronzo, ch’è sulla cima della montagna di calamita, sarà rovesciata
nel mare dal Principe Agib, figlio del Re di Cassib, e gli astri
annunziano che cinquanta giorni dopo vostro figlio dovrà essere ucciso
da quello stesso Principe. Siccome questa predizione si accordava col
sogno di mio padre, ei ne fu veramente commosso e addolorato. Non lasciò
pertanto di prender molta cura della mia educazione fino a quest’anno,
ch’è il quindicesimo di mia età. Ha saputo ieri che il cavaliere di
bronzo è stato gittato in mare dal Principe nominatovi.
Sulla predizione degli astrologhi ha cercato
il mezzo d’ingannare il mio oroscopo e conservarmi la vita. Da molto
tempo ha preso la cura di far costruire questa dimora per tenermi
nascosto durante cinquanta giorni, allorché saprebbe rovesciata la
statua. Perciò come ha saputo esserlo stata da dieci giorni, venne
subito a nascondermi qui, promettendomi che nel quarantesimo verrebbe a
riprendermi.
Mentre il giovinetto mi parlava in tal guisa,
io mi burlava fra me e me degli astrologhi cui avean predetto ch’io gli
toglierei la vita, e mi sentii sì lontano dal verificare la predizione,
che gli dissi con trasporto:
— Caro signore, confidate nella bontà di Dio,
e non temete di nulla. Son lieto, dopo aver naufragato, di trovarmi
felicemente qui per difendervi da chiunque volesse attentare a’ vostri
giorni.
Con tal discorso lo rassicurai. Mi astenni
per paura di spaventarlo, di dirgli ch’io era il temuto Agib, ed ebbi
cura di non dargliene alcun sospetto.
Mangiammo insieme delle sue provvigioni,
perché egli ne aveva tante da sopravvanzargliene alla fine de’ quaranta
giorni, quand’anche avesse avuti più ospiti di me. Dopo la cena
continuammo ad intrattenerci qualche tempo, e poscia ci riposammo.
Infine sotto quel sotterraneo passammo
trentanove giorni col più gran piacere del mondo.
Giunse il quarantesimo, e la mattina, il
giovine svegliandosi, mi disse con trasporto di gioia:
— Principe, eccomi oggi al quarantesimo
giorno, e grazie a Dio e alla vostra buona compagnia non sono ancor
morto. Mio padre non mancherà di mostrarvi la sua riconoscenza, e di
fornirvi tutti i mezzi necessari per ritornar nel vostro regno: ma
intanto — egli soggiunse — vi supplico di voler riscaldare un poco
d’acqua per lavarmi tutto il corpo in un bagno portatile; mi voglio
ripulire e cangiar d’abito, per meglio ricevere mio padre.
Io posi l’acqua sul fuoco, e quando fu
tiepida ne riempii il bagno portatile; il giovine vi si pose dentro, lo
lavai e lo asciugai io stesso. Indi uscito, si coricò nel suo letto e lo
copersi colla sua coltre. Poiché fu riposato ed ebbe dormito qualche
tempo, mi disse:
— Principe, compiacetevi di portarmi un
melone.
Dei molti meloni che ci restavano scelsi il
migliore e lo posi in un piatto; e siccome non trovava un coltello per
tagliarlo, domandai al giovane se sapesse dove fossero.
— Ve n’è uno — mi rispose — su questa cornice
al di sopra della mia testa.
Infatti lo vidi; mi affrettai talmente per
prenderlo, che quando l’ebbi in mano, il mio piede s’inviluppò in modo
tale nelle coltri ch’io caddi sventuratamente sul giovane, immergendogli
il coltello nel cuore, ond’ei spirò all’istante. A tale spettacolo
mandai un grido di dolore. Poscia alzando le mani e la testa al Cielo,
esclamai:
— Signore, vi domando perdono, e se sono
colpevole della morte di questo giovine non mi lasciate vivere più a
lungo!
Nulladimeno, riflettendo non esser le mie
lacrime capaci di far rivivere il giovine, e che sarei stato sorpreso da
suo padre, uscii dal sotterraneo.
Vi era vicino al sotterraneo un grand’albero,
le cui fronde foltissime mi parvero adatte a nascondermi; mi vi situai
in modo da non poter essere scoperto, ed aspettai gli eventi.
Sbarcarono il vecchio e gli schiavi, e tosto
si avanzarono verso il sotterraneo: alzarono la pietra e discesero.
Chiamano il giovane per nome, ma non risponde; si raddoppia il loro
timore: lo cercano e lo trovano finalmente sul letto col coltello in
mezzo al cuore, non avendo io avuto il coraggio di cavarglielo.
A tal vista ruppero in grida di dolore; il
vecchio cadde svenuto; gli schiavi, per fargli prender aria, lo portano
a piè dell’albero su cui mi trovavo.
— Dopo la partenza del vecchio, degli schiavi
e del naviglio, io restai solo. Passava la notte nel sotterraneo che non
era stato coperto, ed il giorno camminava intorno all’isola. Dopo un
mese di simile vita allorquando avvertii che il mare diminuiva
considerevolmente, non rimanendo più tra il continente e me se non un
picciol tratto d’acqua, tosto lo attraversai e scorsi in lontananza un
gran fuoco.
Senonché coll’approssimarmi, il mio errore si
dissipò: invece d’un fuoco era un castello di rame rosso.
Mi assisi vicino a quell’edifizio. Tosto vidi
dieci giovani i quali parea venissero dal passeggio; erano tutti ciechi
dall’occhio destro ed accompagnavano un uomo d’alta statura.
Mi si accostarono, manifestando il contento
che provavano nel vedermi, e domandandomi qual motivo mi avesse ivi
condotto.
Si sedettero, ed io narrai ciò che m’era
avvenuto dacché era uscito dal mio regno fin allora. Quand’ebbi
terminato il mio discorso, quei giovani signori mi pregarono d’entrare
con essi nel Castello, ed io accettai la loro offerta.
Attraversammo un’infinità di sale, di
anticamere e di gabinetti elegantemente mobigliati, e giungemmo in un
gran salotto.
— Camerata, sedetevi qui in mezzo su questo
tappeto non informandovi di ciò che ci riguarda né tampoco della cagione
per cui siamo tutti ciechi dell’occhio dritto: contentatevi di vedere, e
non spingete più oltre la vostra curiosità.
Il vecchio si alzò ed
uscì, ritornando colla cena per tutti.
La mia storia era loro sembrata tanto
straordinaria, che me la fecero ripetere al finir della cena, onde diede
luogo ad una conversazione lunghissima. Poscia il vecchio si alzò, ed
entrato in un gabinetto recò in testa dieci bacini l’uno dopo l’altro,
tutti coperti di stoffa turchina, e ne pose uno con una fiaccola avanti
ciascuno di quei giovani.
Essi scoprirono il loro rispettivo bacino,
nei quali vi era della cenere, del carbone polverizzato, e del nero
fumo. Mescolarono tutte quelle sostanze e cominciarono a fregarsi e
macchiarsi il viso, da far orrore a vederli.
Dopo essersi tinti così, si posero a piangere
ed a battersi la testa ed il petto gridando incessantemente:
— Ecco il frutto del nostro ozio e della
nostra sregolatezza!
Il giorno appresso e l’altro ancora fecero lo
stesso.
Infine io non potei resistere alla mia
curiosità, e li pregai seriamente di appagarla.
Uno di loro mi rispose per tutti gli altri:
— Se volete provare il nostro destino
crudele, ditelo, e vi daremo la soddisfazione che domanderete.
Io risposi esser preparato ad ogni
avvenimento.
Mi disse ancora che quando io avessi perduto
l’occhio non doveva più sperare di rimanere con essi, supposto ch’io
nutrissi simile pensiero, perché il loro numero era compiuto.
I dieci signori, vedendomi irremovibile nella
mia risoluzione, presero un montone e lo scannarono; dopo avergli tolta
la pelle, mi presentarono il coltello di cui s’erano serviti, dicendomi:
— Prendete questo coltello, vi servirà. Noi
vi cuciremo in questa pelle, indi un uccello di enorme grandezza
chiamato Roc apparirà nell’aria e prendendovi per un montone piomberà su
di voi vi alzerà e vi poserà sulla cima d’una montagna; allora mediante
il coltello sbarazzatevi del vostro involucro, camminate finché non
siate giunto ad un Castello tutto coperto di lamine d’oro di grossi
smeraldi e di altre pietre preziose. Presentatevi alla porta ch’è sempre
aperta, ed entrate. Noi siamo stati tutti in quel Castello; non vi
diciamo nulla di ciò che abbiamo veduto, né di quel che ci è
intervenuto, perché lo saprete da voi.
Dopo tal discorso m’inviluppai nella pelle di
montone, e m’impadronii del coltello; quei giovani si presero la pena di
cucirmivi dentro, mi lasciarono sul largo, e si ritirarono nel loro
salone.
Il Roc, di cui mi avevano parlato, piombò su
di me, mi prese fra gli artigli come un montone, e mi trasportò sulla
sommità della montagna. Quando mi sentii a terra, feci uso del coltello,
e mi sbarazzai della pelle, correndo diffilato al castello. L’uscio ne
era aperto; entrai in una corte quadrata e vastissima avente intorno 99
porte di legno di sandalo e di aloè, ed una d’oro.
Scorsi di fronte una porta aperta, per la
quale entrai in un gran salone, dove erano sedute quaranta donzelle di
una bellezza così perfetta da vincere l’immaginazione. Tostoché mi
videro, si alzarono tutte insieme, e senza aspettare i miei complimenti
mi dissero con grandi dimostrazioni di gioia:
— Bravo, signore, siate il benvenuto!
Dopo molta resistenza
da parte mia mi sforzarono a sedermi in un posto un po’ più elevato del
loro, e siccome io dimostrai di averne rincrescimento, esse mi dissero:
— Questo è il vostro posto; da questo momento
voi siete il nostro signore, il nostro padrone, il nostro giudice: e noi
siamo vostre schiave, pronte a ricevere i vostri comandi.
Una portò dell’acqua calda e mi lavò i piedi;
un’altra mi versò dell’acqua odorifera sulle mani: le altre portarono
tutto quanto era necessario per farmi mutar vestito, mi apprestarono una
colazione magnifica.
Io bevvi e mangiai, poscia feci un esteso
racconto delle mie avventure a quelle belle donnine.
Quando ebbi terminato di raccontare la mia
storia alle quaranta donne, alcune di loro, sedute più a me dappresso,
restarono per intrattenermi, mentre le altre si alzarono per andare in
cerca di lumi; ne portarono tanti da uguagliare meravigliosamente la
chiarezza del giorno.
Altre donne apparecchiarono una tavola di
frutta secche, di confetti e di bevande; altre ne guarnirono un’altra di
molte specie di vini e liquori, ed altre infine comparvero con
istrumenti musicali.
Quando fu preparato m’invitarono a prender
posto.
Dopo la cena, i concerti ed il ballo, una
delle donne mi disse:
— Voi siete stanco per il cammino fatto oggi;
è tempo di riposarvi. Il vostro appartamento è preparato: ma prima di
ritirarvi scegliete fra noi una che vi serva.
Bisognò cedere alle loro istanze; presentai
la mano alla donna che parlava per le altre: ella mi porse la sua e mi
condusse in un magnifico appartamento. Così passò quella notte. Non
aveva al mattino dopo appena terminato di vestirmi, quando le altre
trentanove donne vennero nel mio appartamento, tutte adornate
diversamente del giorno innanzi. Esse mi condussero al bagno ov’esse
medesime, mio malgrado, mi rendettero tutti i servigi di cui avevo
bisogno: e quando ne uscii, mi fecero prendere un altro abito assai più
magnifico del primo.
Passammo il giorno quasi sempre a tavola: e
quando fu venuta l’ora del riposo mi pregarono di far lo stesso
dell’antecedente giorno. Infine, passai un intero anno in quel modo.
Alla fine dell’anno le quaranta donne
entrarono nel mio appartamento colle guancie bagnate di pianto. Vennero
ad abbracciarmi teneramente l’una dopo l’altra, e mi dissero:
— Addio, caro Principe, addio! Bisogna
abbandonarvi.
Le loro lacrime m’intenerirono: ed io le
pregai a dirmi la cagione del loro dolore, e della separazione di cui mi
parlavano.
— Ahi! — disposero — qual altra cagione
sarebbe capace di affliggerci, se non quella di separarci da voi? Forse
non vi rivedremo mai più! Se intanto voi volete, ed avete perciò potere
abbastanza su voi, non sarebbe impossibile di ricongiungerci.
— Donne — ripresi — non comprendo nulla di
ciò che dite; vi prego di parlarmi più chiaro.
— Ebbene, — disse una di loro — per
soddisfarvi vi diremo che siamo tutte Principesse, figliuole di Re.
Viviamo qui insieme colla letizia che avete veduto: ma alla fine d’ogni
anno siamo obbligate di allontanarci per quaranta giorni, onde
soddisfare a certi doveri indispensabili, che non ci è permesso
rivelare; dopo ritorniamo in questo castello. L’anno finì ieri: bisogna
oggi lasciarvi: è questa la cagione della nostra afflizione. Prima di
uscire vi lasceremo le chiavi d’ogni cosa. Ma per nostro bene e per
nostro comune interesse vi raccomandiamo di non aprire la porta d’oro:
se l’aprirete non vi vedremo mai più!
Il discorso di quelle vaghe Principesse mi
diede molta pena.
I nostri addii furono tenerissimi, io le
abbracciai una dopo l’altra; esse partirono ed io restai solo nel
Castello.
Fui vivamente afflitto della loro partenza e
quantunque la loro lontananza non dovesse essere che di quaranta giorni
mi parve di dover passare un secolo senza di esse.
Io mi riprometteva di non dimenticare
l’avvertimento importante, di non aprir cioè la porta d’oro; ma siccome,
salvo quell’eccezione, mi era permesso di soddisfare la mia curiosità,
presi, secondo l’ordine in cui eran messe, la prima chiave delle altre
porte.
Apersi la prima ed entrai in un giardino
fruttifero, al quale credo nessun altro al mondo possa paragonarsi: e
penso che quello il quale ci vien
promesso dopo morte dalla nostra religione, non possa sorpassarlo.
La simmetria, l’eleganza, la disposizione
ammirabile degli alberi, l’abbondanza e la diversità dei frutti di mille
specie sconosciute, la loro freschezza, la loro bellezza, tutto rapiva
la mia vista.
Uscii coll’animo pieno di quelle meraviglie,
chiusi la porta ed apersi quella che veniva dopo.
Invece d’uno di frutti ne trovai uno di
fiori, che non era men singolare nel suo genere.
Io non mi arresterò a farvi la narrazione di
tutte le cose rare che vidi ne’ giorni seguenti; ma vi dirò soltanto che
non mi bastarono meno di trentanove giorni per aprire le novantanove
porte ed ammirar tutto ciò che si offerse alla mia vista.
Giunto già al quarantasettesimo giorno dopo
la partenza delle principesse se avessi potuto quel giorno conservare su
me il debito potere sarei oggi il più felice di tutti gli uomini, invece
di esserne il più sventurato: ma per una debolezza di cui non cesserò
mai di pentirmi, soccombetti alla tentazione del demonio, aprii la porta
fatale, trovai un vasto luogo a vòlta; molti candellieri d’oro
massiccio, aventi lumi accesi che mandavano un odore d’aloè e d’ambra
grigia, servivano di luce: fra un numero molto grande di oggetti che
attiravano la mia curiosità scopersi un cavallo nero. Mi ci appressai
per considerarlo, e trovai che aveva una sella ed una briglia d’oro
massiccio. Lo presi per la briglia e lo trassi fuori. Montai su, e volli
farlo camminare: ma siccome non si muoveva, lo percossi con uno
scudiscio che avevo preso nella magnifica scuderia. Appena intese il
colpo si pose a nitrireo con orribile strepito; poi spiegando due ali,
di cui non mi era accorto, si levò nell’aria. Ripreso indi il suo volo
verso terra si pose sul torrazzo d’un castello, ove senza darmi tempo di
metter piede a terra, mi scosse così violentemente, che mi fece cadere
indietro, e coll’estremità della sua coda mi cavò l’occhio dritto.
Ecco in qual modo son divenuto cieco. Il
cavallo riprese il suo volo e disparve.
Camminai sul terrazzo colla mano all’occhio,
che molto mi doleva, e disceso mi trovai in un salone che dai dieci sofà
ch’erano in giro, fecemi conoscere che era il Castello donde ero stato
tratto dal Roc.
I dieci giovani ciechi non erano nel salone;
ond’io li aspettai finché poco tempo dopo giunsero col vecchio.
Essi m’insegnarono la via che doveva tenere e
mi separai da loro.
Nel cammino mi feci
radere la barba e le sopracciglia e presi l’abito di Calender. È molto
tempo che cammino, e oggi all’entrar della notte son giunto in questa
città.
Avendo il terzo Calender terminato di
raccontare la sua storia, Zobeida, dirigendosi a lui ed a’ suoi
confratelli disse:
— Andate, siete liberi tutti e tre,
ritiratevi dove più vi piace.
E volgendosi al Califfo, al visir Giafar ed a
Mesrour, che essa non conosceva per quel ch’erano, disse loro:
— Tocca a voi a raccontare la vostra storia:
parlate.
Il gran visir Giafar rispose ancor’egli a
Zobeida:
— Signora, per obbedirvi, non abbiamo che a
ripetervi ciò che vi abbiamo detto prima d’entrare in casa vostra. Noi
siamo mercanti di Mussul, e veniamo a Bagdad per negoziare le nostre
mercanzie, che sono in magazzino dentro un Klan.
«Per caso passammo per la vostra strada ed
udimmo il vostro divertimento. Ciò ci determinò a picchiare alla vostra
porta, ed ecco quanto dovevamo dirvi per obbedire ai vostri ordini.
Zobeida, dopo aver ascoltato simile discorso,
disse:
— Voglio che tutti mi abbiate la stessa
obbligazione. Vi faccio grazia, a condizione che usciate da questa casa
subito e che vi ritiriate ove vi piacerà.
Avendo Zobeida dato quest’ordine con tuono
che dimostrava voler esser obbedita, il Califfo, il Visir, Mesrour, i
tre Calender ed il facchino, uscirono senza replicare perché la presenza
de’ sette schiavi armati li teneva in rispetto.
Quando furono fuori della casa e la porta fu
chiusa, il Califfo disse ai Calender, senza far loro conoscere chi
fosse:
— E voi, signori, che siete stranieri e di
recente giunti in questa città, dove andate?
— Signore, questo appunto ci dà impaccio.
— Seguiteci, — rispose il Califfo — ve ne
toglieremo noi.
Poi disse al gran Visir:
— Conduceteli a casa
vostra, e domattina accompagnateli da me; voglio far scrivere le loro
istorie, le
quali meritano di avere un posto negli annali del mio regno.
Il visir Giafar menò con lui i tre Calender;
il facchino si ritirò in casa sua, ed il Califfo, accompagnato da
Mesrour, andò al suo Palazzo.
L’indomani si levò, ed andò nella sala ove
teneva il suo consiglio e dava udienza, e si sedette sul trono.
Il gran Visir giunse qualche tempo dopo.
— Visir — gli disse il Califfo — gli affari
che dobbiamo regolare adesso non sono molto interessanti: e lo è più
quello delle tre donne e delle tre cagne nere. Andate, fate venire
quelle donne, e conducete nel medesimo tempo i Calender.
Il Visir si sollecitò ad obbedire. Giunse in
casa delle donne, espose loro in modo gentilissimo l’ordine che aveva di
condurle dal Califfo.
Questo Principe, per mantenere il decoro
davanti gli ufficiali di sua casa, che erano presenti, fece situare le
donne dietro la cortina della sala che metteva nel suo appartamento, e
ritenne presso di sé i tre Calender, i quali mostrarono manifestamente
col loro rispettoso contegno di non ignorare avanti di chi avevano
l’onore di comparire.
Quando le donne furono al loro posto, il
Califfo, voltosi a loro, disse:
— Vi ho chiamate soltanto per conoscere chi
siete, e domandarvi per qual ragione una di voi, dopo aver maltrattato
le due cagne nere, ha pianto con loro; né son men curioso di sapere
perche un’altra di voi ha il suo seno tutto coperto di cicatrici.
|