STORIA DEL CONVITATO
– Sappiate, o miei signori, che sotto il
regno del Califfo Haroun-al-Rascid, mio padre vivea a Bagdad, ove son
nato, e passava per uno dei più ricchi mercanti della città. Ma come
egli era un uomo interamente dedito ai piaceri ed alla crapula,
trascurava i suoi affari, ed invece di raccogliere grandi ricchezze alla
sua morte, ebbi bisogno di tutta la maggiore economia per saldare i
debiti da lui lasciati. Giunsi nonpertanto a pagarli tutti, e mediante
il mio studio ed attenzione, la mia piccola fortuna, principiò a
mostrare una faccia ridente.
Una mattina nell’aprire la mia bottega, una
dama mi si accostò salutandomi, e mi pregò di permetterle di riposarsi,
aspettando l’arrivo degli altri mercanti.
Corrisposi al suo complimento come dovea. Mi
disse voler far acquisto di molte sorte di stoffe delle più belle e
delle più ricche le quali nominò, e ricercommi se ne avessi.
— Ohimè, signora! — le risposi — io sono un
giovine mercante, appena ho principiato a stabilirmi e non sono ancora
sufficientemente ricco per formare un negozio sì ragguardevole, ed è per
me una mortificazione il non aver nulla di quello per cui siete venuta
al Bezestein: ma per risparmiarvi la pena di andare di bottega in
bottega, tosto i mercanti saranno venuti andrò, se desiderate, a pigliar
da essi quanto bramate: me ne diranno il giusto prezzo, e senza andar
più oltre, potete far qui le vostre spese.
Ella vi aderì, e corsi a rintracciare i
drappi che ella bramava, e quando ebbe scelti quelli che le piacevano,
accordammo il prezzo a cinquemila dramme d’argento.
Ne formai un involto che consegnai
all’eunuco, il quale se lo pose sotto il braccio; ella poscia si alzò, e
se ne partì dopo essersi da me congedata. L’accompagnai con gli occhi
fino alla porta del Bezestein né tralasciai di riguardarla finché non fu
risalita sopra la mula.
Appena non vidi più la dama, mi accorsi
avermi fatto l’amore commettere un gran fallo. M’aveva talmente confuso
lo spirito da non accorgermi essersene andata senza pagare; né io le
aveva dimandato chi ella fosse, e dove abitasse.
Considerai essere io debitore di una non
lieve somma a molti mercanti, i quali forse non avrebbero avuto la
sofferenza di aspettare. Andai a scusarmi con essi nel miglior modo
possibile, dicendo loro che io conosceva la dama. Ritornai finalmente
alla mia casa, innamorato ed imbarazzato di un sì gran debito.
Finalmente s’impazientivano, e per soddisfarli ero pronto a vendere
quanto aveva, allorché una mattina la vidi ritornare con lo stesso
equipaggio.
— Pigliate il vostro saggiuolo — mi disse —
onde pesar l’oro che vi porto.
Queste parole terminarono di dissipare il mio
timore, e raddoppiarono il mio affetto.
Prima che io numerassi i pezzi d’oro, ella mi
fece molte interrogazioni, e fra le altre mi chiese se avessi moglie. Le
risposi di no.
Essa allora, consegnando l’oro all’eunuco,
disse:
— Usate di tutta la vostra destrezza per
terminare il nostro affare.
L’eunuco si pose a ridere, e avendomi tirato
in disparte, mi fece pesar l’oro.
Mentre faceva ciò, egli mi disse
all’orecchio:
— Al vedervi conosco
perfettamente che voi amate la mia padrona, e son sorpreso che non
abbiate il coraggio di scoprirle il vostro amore. Ella vi ama
ancor maggiormente di quello che voi l’amiate. Non crediate che ella
abbia bisogno delle vostre stoffe; essa qui viene unicamente perché le
avete inspirato una violenta passione. Per tal cagione vi ha chiesto se
eravate ammogliato. A voi tocca di parlare, e da voi dipende lo
sposarla, se volete.
Terminato di pesare i pezzi d’oro, mentre li
poneva nel sacco, l’eunuco si volse alla dama, dicendole ch’era
contentissimo.
Subito la dama alzossi e partì, dicendomi che
mi avrebbe spedito l’eunuco e non avrei se non ad eseguire quanto egli
mi direbbe il suo nome.
Portai ad ogni mercante il proprio denaro
aspettando con impazienza l’eunuco per qualche giorno: finalmente lo
vidi arrivare.
Appena giunto gli
domandai notizie della sua padrona.
— Voi siete — mi rispose — l’amante più
felice del mondo; ella è inferma di amore. Se dessa potesse disporre a
suo piacere di sé medesima, verrebbe personalmente a rintracciarvi e
volentieri impegnerebbe con voi tutti i momenti del suo vivere.
— Alla sua aria nobile e alle sue maniere
civili — gli dissi — ho giudicato che doveva esser qualche dama di
considerazione.
— Non vi siete punto ingannato in questo
giudizio — replicò l’eunuco — ella è la favorita di Zobeida, moglie del
Califfo, la quale tanto più l’ama in quanto che l’ha allevata da
piccina.
«Avendo la mia padrona
deciso di maritarsi, ha partecipato alla moglie del gran Commendatore
de’ credenti di aver fissato gli sguardi sopra di voi, chiedendole il
suo assenso. Zobeida le ha risposto di aderirvi, ma prima voleva
vedervi. Non si tratta adunque di altro se non di venire a Palazzo: a
voi spetta stabilire la vostra risoluzione.
— L’ho già presa, e son pronto a seguirvi
ovunque volete condurmi.
— Questo va bene — disse l’eunuco — solo
dovete sapere non poter gli uomini entrare negli appartamenti delle dame
di Palazzo, quindi non potete esservi introdotto se non pigliando
apposite misure.
— Bisogna adunque — mi disse — che questa
sera nell’entrar della notte, vi rechiate alla moschea, aspettando colà
finché vi si venga a cercare.
Aderii a quanto egli volle: aspettai con
impazienza il fine del giorno, indi partii.
Vidi subito arrivare un battello, i cui
remiganti erano tutti eunuchi. Essi sbarcarono e portarono nella moschea
molti gran forzieri, poscia si ritirarono. Non ve ne restò se non uno
solo, il quale riconobbi esser quello del quale mi aveva parlato la
mattina. Vidi pure entrare la dama.
— Non abbiamo tempo da perdere — mi disse
quella, — e nel proferir
ciò aprì uno dei forzieri e comandommi di mettermivi dentro: questa è
una cosa — aggiunse — necessaria per la vostra e la mia sicurezza.
L’eunuco poscia, il quale era a parte della
sua confidenza, chiamò i suoi compagni i quali avevano portati i
forzieri e li fece riportar tutti nel battello; rimbarcati di poi la
dama ed il suo eunuco si principiò a vogare co’ remi per condurmi
all’appartamento di Zobeida.
Il battello arrivò innanzi alla porta del
Palazzo.
Appena entrati, udii gridare all’improvviso:
— Ecco il Califfo! Ecco il Califfo!
A tali parole credetti morir di paura.
— Che portate voi adunque in questi forzieri?
— egli disse alla favorita.
— Gran Commendatore de’ credenti — rispose
quella — sono stoffe le quali la moglie della Maestà Vostra brama
vedere.
— Aprite, aprite — ripigliò il Califfo —
voglio io pure vederle.
Fu necessità ad obbedirlo: allora sentii un
sì vivo spavento da fremerne ancora tutte le volte che ci penso.
Il Califfo s’assise, e la favorita fece
portare alla sua presenza tutti i forzieri l’uno dopo l’altro e li aprì.
Per portar le cose a lungo, gli faceva osservare per minuto tutte le
bellezze di ogni drappo in particolare. Come essa non era meno
interessata di me a non aprire il forziere, ove io me ne stava
rinchiuso, non si dava gran fatica a farlo portare, né vi restava altro
se non quello da visitare.
— Finiamola — disse il califfo — vediamo
ancora ciò che vi è in questo.
Quando la favorita di Zobeida vide il Califfo
assolutamente risoluto di far aprire il forziere in cui mi trovavo
racchiuso:
— Oh! per questo — disse — Vostra Maestà mi
farà la grazia e il piacere di dispensarmi di farle vedere ciò che vi è
dentro, se non in presenza di vostra moglie.
— Questo è giusto — disse il Califfo — ne
sono contento. Fate portar via i vostri forzieri.
Ella subito li fece levare e portar nella sua
camera.
Appena gli eunuchi li ebbero ivi portati e si
furono ritirati, ella prestamente aprì quello ove io era rinchiuso.
— Uscite — mi disse additandomi la porta di
una scala, la quale conduceva in una camera di sopra — salite, e
aspettatemi.
Quando si vide in libertà venne a ritrovarmi
nella camera, ove era salito, e mi fece molte scuse di tutti i timori e
spaventi cagionatimi.
Dopo esserci per qualche tempo trattenuti con
molto affetto:
— È tempo — mi disse — di andarvi a riposare;
io non mancherò di presentarvi domani a Zobeida mia padrona; è questa
una cosa facile perché il Califfo non la vede se non la notte.
Incoraggiato da questo discorso dormii molto
tranquillamente.
La mattina seguente la favorita di Zobeida,
mi condusse in una sala, ove tutto era
di una magnificenza, di una ricchezza, e di una eleganza indicibili.
Non vi era appena entrato, che venti schiave
di una età un poco avanzata, tutte vestite di ricchi abiti e uniformi,
uscirono dalla stanza di Zobeida, e vennero a disporsi davanti ad un
trono, in due file eguali.
Zobeida comparve in mezzo di queste con aria
maestosa, carica di gioie e di ogni sorta di pietre preziose da poter
appena camminare.
Essa andò ad assidersi sul trono. Dimenticava
dirvi essa esser accompagnata dalla sua dama favorita, la quale si fermò
in piedi alla sua presenza, mentre le schiave, un poco più allontanate,
stavano in gruppi dalle due parti del trono.
Appena la moglie del Califfo si fu assisa, le
schiave, entrate per le prime, mi fecero segno di accostarmisi. Mi
aprossimai nel mezzo delle due file di schiave e mi prostrai ai piedi
della Principessa.
Quella mi comandò di rialzarmi e mi fece
l’onore d’informarsi del mio nome, della mia famiglia e dello stato di
mia fortuna, ed io le risposi con sua grande soddisfazione.
— Sono molto contenta — mi disse — che mia
figlia — così essa chiamava la sua dama favorita — abbia fatto una sì
buona scelta; approvo ed acconsento che vi sposi. Parlerò al Califfo ed
otterrò il suo assenso e voi qui vi fermerete: si avrà cura di voi.
Scorsi dieci giorni, Zobeida fece stendere il
contratto di matrimonio; si fecero i preparativi degli sponsali: furono
chiamati i ballerini e le ballerine e vi furono per nove giorni grandi
feste nel palazzo.
Il decimo giorno,
essendo destinata per l’ultima la cerimonia del matrimonio, la dama
favorita fu condotta al bagno da una parte ed io dall’altra, e verso
sera, essendomi posto a tavola mi furono apprestate di ogni sorta di
vivande e d’intingoli: fra gli altri un manicaretto con l’aglio, come
quello che son ora forzato di mangiare.
Io lo trovai tanto buono e delicato, che non
toccai quasi nulla delle altre vivande. Ma per disgrazia, essendomi
levato da tavola, mi contentai di asciugarmi le mani, invece di ben
lavarmele.
Terminate finalmente tutte quelle cerimonie,
fummo condotti nella camera nuziale. Rimasti soli, me le avvicinai per
abbracciarla: ma ella invece di corrispondermi a’ miei trasporti, mi
respinse fortemente e proruppe in
ispaventevoli grida: sicché subito accorsero nella camera tutte le dame
dell’appartamento.
— Sorella mia cara — le dissero — che vi è
dunque accaduto dacché vi abbiamo lasciata? Ditelo, affinché vi
soccorriamo.
— Levatemi — esclamò essa — levatemi davanti
gli occhi quest’uomo incivile!!
— Ah! signora — le dissi — in che posso io
avere avuto la disgrazia d’incorrere nel vostro sdegno?
— Voi siete un incivile — mi rispose tutta
furiosa — avete mangiato l’aglio, né vi siete lavate le mani? Credete
voi che io voglia soffrire un uomo così malcreato?
— Coricatelo per terra — soggiunse ella,
parlando alle dame — e mi si porti un nervo di bue.
Quelle subito mi rovesciarono a terra, e nel
mentre alcune mi tenevano per le braccia ed altre per i piedi, mia
moglie, crudelmente mi batté, finché le mancarono le forze.
Ella allora disse alle dame:
— Pigliatelo, conducetelo al luogotenente
criminale onde gli tagli la mano, con la quale ha mangiato l’intingolo
con l’aglio.
Tutte le dame le quali mi avevano veduto
ricevere mille colpi di nervo di bue ebbero di me pietà, quando udirono
parlare di farmi tagliar la mano.
— Sorella nostra cara, e nostra buona dama —
dissero alla favorita — voi tropp’oltre portate il vostro risentimento!
Quest’uomo per vero, non sa vivere, egli ignora il vostro grado ed i
riguardi che meritate: ma vi supplichiamo di perdonargli.
— Io non sono soddisfatta — ripigliò ella —
voglio ch’egli impari a vivere e porti segni tanto visibili della sua
inciviltà da non più avvisarsi di mangiare intingolo con l’aglio, senza
poscia lavarsi le mani.
Nel terminar queste espressioni, mi fece
legare e coricar per terra, poscia pigliò un rasoio, ed ebbe la barbarie
di tagliarmi i quattro pollici.
Una donna applicò una certa radice per
fermare il sangue: ciò non ostante caddi a terra svenuto.
Rinvenni dal mio svenimento e mi fu
apprestato del vino da bere per farmi ricuperare le forze.
— Ah! signora — dissi allora a mia moglie —
se mi accade giammai di mangiare un intingolo con l’aglio, vi giuro che
invece di una volta mi laverò le mani centoventi volte con l’alcali,
colla cenere della stessa pianta e con sapone.
— Or bene — mi disse mia moglie — a questo
patto m’induco a porre in dimenticanza il vostro passato, e vivere con
voi.
— Questa o signori miei — continuò il
mercante di Bagdad, voltandosi alla compagnia — è la cagione per la
quale rifiutava di mangiare nell’intingolo con l’aglio.
Indi continuò:
— Nel termine di un anno mia moglie cadde
inferma, e in pochi giorni morì.
Avrei potuto rimaritarmi e continuare a
vivere onorevolmente a Bagdad: ma la mia smania di girare il mondo
m’inspirò un altro disegno.
Vendei la mia casa, e dopo aver comprato
molte specie di mercanzie, mi unii ad una carovana, e passai in Persia.
Di là m’incamminai a Samarcanda, da dove son venuto a stabilirmi in
questa città.
— Questa, o Sire — disse il Provveditore il
quale parlava al Sultano di Gasgar — è la storia narrata ieri da quel
mercante di Bagdad alla compagnia di cui facevo parte.
— Questa storia — disse il Sultano — contiene
in sé qualche cosa di straordinario: ma non è da paragonarsi a quella
del piccolo gobbo.
Il sarto, inoltrandosi e prostrandosi ai
piedi del Sultano:
— Giacché la Maestà Vostra ama le storie
piacevoli, voglio narrarvene una io pure.
— L’ascolterò volentieri — ripigliò il
Sultano — ma non lusingarti che ti conceda la vita, se non sarà più
interessante di quella del gobbo.
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