STORIA DI NOUREDDIN E DELLA BELLA PERSIANA
La città di Bassora fu per lungo tempo
capitale di un regno tributario di Califfi. Il re che lo governava al
tempo del Califfo Haroun-al-Rascid si chiamava Zinebi, e l’uno e l’altro
eran cugini, perché figliuoli di due fratelli. Zinebi non aveva creduto
sufficiente d’affidare l’amministrazione dello Stato ad un solo Visir, e
ne aveva scelti due, Khacan e Saouy.
Un giorno, dopo il consiglio, il re, per
sollevarsi lo spirito, conversava co’ suoi due Visir e con altre persone
ragguardevoli.
Il soggetto cadde sulle donne schiave le
quali si comprano e si tengono fra noi come le donne legittimamente
sposate. Il re ordinò a Khacan di comprargli una schiava perfetta in
bellezza, ed avesse tutte le possibili qualità, e sopratutto fosse
sapientissima.
Saouy, geloso dell’onore fatto dal re a
Khacan, gli disse:
— Sire, sarà assai difficile trovare una
schiava tanto perfetta quanto Vostra Maestà la chiede. Se si troverà,
ciò che io stento a credere, l’avrà a buon mercato se la pagherà un
diecimila piastre d’oro.
— Saouy — rispose il re — voi trovate a quel
che sembra la somma troppo grossa: può esserla per voi, ma non lo è per
me.
Nello stesso tempo il re ordinò al suo
tesoriere di mandare le diecimila piastre d’oro a Khacan: il quale
appena fu in casa sua, fece chiamare tutti i sensali di vecchie e
giovani schiave, e loro commise appena ne avessero trovata una come loro
la dipinse, andassero a dargliene avviso.
Un mattino un sensale
gli si presentò con gran premura, annunziandogli esser giunto un
mercante di Persia, e avere una schiava a vendere d’una perfetta
bellezza.
Khacan gli disse di condurgli la schiava.
Il sensale non mancò all’ora precisa, di
andare da Khacan, il quale trovò la schiava tanto avvenente che le diede
il soprannome di bella persiana.
Domandò quanto ne esigesse, ed il sensale
così gli rispose:
— Signore, il mercante ne vuole diecimila
piastre d’oro.
Il Visir Khacan mandò a chiamare il mercante.
Giunto questi, il Visir Khacan fece contare
al mercante la somma richiesta, il quale, prima di andarsene gli disse:
— Signore, poiché la schiava è destinata pel
re, permettete ch’io vi dica esser ella estremamente stanca del lungo
viaggio fattole fare per condurla fin qui. Quantunque sia d’una bellezza
senza pari, pur nondimeno sarà tutt’altra cosa se la terrete una
quindicina di giorni in casa vostra, facendola ben trattare.
Essendo a Khacan piaciuto il consiglio del
mercante risolse di seguirlo.
Laonde dette alla bella persiana un
appartamento particolare vicino a quello di sua moglie, cui pregò di
farla mangiare con lei e di tenerla come una signora appartenente al re.
La pregò eziandio di farle fare diversi abiti magnifici.
Noureddin — così si chiamava il figlio di
Khacan — entrava liberamente nelle camere della madre sua colla quale
aveva l’abitudine di pranzare.
Egli era ben fatto della persona, dotato di
spirito al più alto grado. Vide la bella persiana, e dal loro primo
colloquio, quantunque avesse saputo che era stata comprata pel re da suo
padre, non si fece il menomo scrupolo di amarla. Si lasciò vincere
dapprima dalle sue grazie, ed il colloquio che ebbe con lei gli fece
prendere la risoluzione d’adoperare qualunque espediente per rapirla al
re.
La bella persiana dal canto suo trovò
Noureddin amabilissimo.
Noureddin fu molto assiduo a profittare del
vantaggio che aveva di vedere una bellezza di che era sì amante, di
conversare, di ridere e di scherzare con lei. Non l’abbandonava mai se
non dopo che la madre sua lo costringeva, dicendogli:
— Figliuol mio, non conviene ad un giovane
come voi di star sempre nelle camere delle donne; però andate,
ritiratevi, e pensate a rendervi un giorno degno d’ascendere alla
dignità di vostro padre.
Siccome era molto tempo dacché la bella
persiana non era andata al bagno a cagione del lungo viaggio fatto, la
moglie del gran Visir attese a far riscaldare appositamente per lei
quello che il Visir aveva in sua casa: e ve la invitò, raccomandando
alle sue schiave di servirla come un’altra sé stessa, ed all’uscire dal
bagno di farle indossare un abito assai magnifico, fattole fare.
All’uscir dal bagno la bella persiana mille
volte più graziosa di quanto era sembrata a Khacan allorché avevala
comprata, andò a farsi vedere alla moglie di esso, la quale durò fatica
a riconoscerla.
La bella persiana si ritirò nel suo
appartamento, e la moglie del Visir, prima di passare al bagno, incaricò
due piccole schiave di rimaner con lei coll’ordine di non lasciar
entrare Noureddin, qualora fosse venuto.
Mentre la moglie del Visir Khacan era al
bagno e la bella persiana era sola, Noureddin arrivò, e non avendo
trovata la madre nel suo appartamento, andò a quello della bella
persiana, ove trovò le due piccole schiave nell’anticamera, alle quali
avendo chiesto ove fosse la madre, gli dissero essere al bagno.
— E la bella persiana — soggiunse Noureddin —
v’è anch’essa?
— Essa n’è da poco ritornata — risposero le
due schiave.
La camera della bella
persiana non essendo chiusa se non da una cortina, Noureddin s’avanzò
per entrare, ma
le due schiave essendosi messe innanzi per impedirnelo egli le prese
l’una e l’altra pel braccio e le cacciò fuori dell’anticamera, e chiuse
la porta dietro di loro.
Esse andarono al bagno ad annunziare
piangendo alla loro signora esser Noureddin entrato per forza nella
camera della bella persiana.
La nuova di sì grande audacia cagionò alla
buona donna un vivissimo dispiacere; interruppe il suo bagno, si vestì
con grandissima sollecitudine: ma prima ch’ella avesse terminato e fosse
pervenuta alla camera della bella persiana, Noureddin n’era uscito.
La bella persiana fu meravigliatissima di
vedere entrare la moglie del gran Visir fuori di sé medesima, onde le
disse:
— Signora, m’è permesso chiedervi perché
siete tanto afflitta?
— Come! — esclamò la moglie del gran Visir —
voi mi fate tranquillamente questa domanda dopo che mio figlio è entrato
nella vostra camera, ed è rimasto solo con voi?
— Di grazia, o signora — soggiunse la bella
persiana — quale sciagura può esservi per voi se Noureddin è entrato da
me?
— Come! — rispose la moglie del Visir — mio
marito non v’ha detto di avervi comprata pel re?
— Io non l’ho già dimenticato — replicò la
bella persiana — ma Noureddin m’è venuto a dire che suo padre aveva
cangiato idea, e che invece di serbarmi pel re come ne aveva pensiero,
aveva fatto a lui dono della mia persona. Io l’ho creduto, signora, e
schiava come sono, accostumata alle leggi della schiavitù fin dalla più
tenera età, vedete bene che non ho potuto e non ho dovuto oppormi alla
sua volontà.
La moglie del Visir rispose:
— Piacesse a Dio che quanto mi dite fosse
vero: io pure ne proverei grandissima gioia, ma credetemi, Noureddin è
un impostore e vi ha ingannata, non essendo possibile che suo padre gli
abbia fatto il dono che vi ha detto. Quanto egli ed io siamo
disgraziati!
Ciò detto pianse amaramente, e le sue
schiave, che non temevano meno di lei per la vita di Noureddin, piansero
con essa.
Il Visir Khacan giunse alcuni momenti dopo, e
fu grandemente sorpreso nel vedere la moglie e le schiave a piangere.
La desolata donna non poté dispensarsi dal
soddisfare suo marito e perciò rispose:
— Mentre stavo al bagno colle donne, vostro
figlio è venuto ed ha colto questa sciagurata occasione per dare a
credere alla bella persiana che voi non volevate più darla al re, ma
sibbene farne un dono a lui.
— Ah! — esclamò egli dandosi dei pugni,
mordendosi le mani e strappandosi la barba — così dunque sciagurato
figlio, indegno di vivere, getti tuo padre nel precipizio dal più alto
grado di felicità, lo perdi, e perdi te stesso con lui?
La moglie si studiò di consolarlo dicendogli:
— Rassicuratevi, e se volete darmi retta
mandate a chiamare i sensali, dite loro che non siete per nulla contento
della bella persiana, ed incaricateli di cercarvene un’altra.
Siccome questo consiglio parve assai
ragionevole al Visir Khacan, calmò un poco il suo animo e si propose di
seguirlo: ma non diminuì per nulla la collera contro il suo figliuolo
Noureddin, il quale non si vide affatto per tutta la giornata.
Egli andò fuori della città e si rifugiò in
un giardino ove non era mai stato, dove non era per nulla conosciuto e
non ritornando se non tardi.
L’indomani uscì prima che suo padre si fosse
alzato, prendendo le medesime precauzioni per tutto un mese. La moglie
del Visir sapeva dalle sue donne che Noureddin ritornava ogni giorno, ma
non osava pigliarsi l’arbitrio di pregare suo marito a perdonargli.
Risoluta finalmente un giorno a tutto fare, disse al Visir:
— Signore, io non ho osato finora a prendermi
la libertà di parlarvi di vostro figlio: ma oggi vi supplico permettermi
di chiedervi che cosa pretendete fare di lui.
— Signora — rispose il Visir — io non posso
risolvermi a perdonare Noureddin prima di averlo punito come merita.
— Sarà sufficientemente punito — soggiunse la
moglie se volete fare a mio modo. Vostro figlio entra ogni notte in casa
quando vi siete andato a coricare. Aspettatelo stasera al suo arrivo e
fingete di volerlo uccidere. Io verrò in suo soccorso e voi farete in
modo ch’egli creda dover la vita alle mie preghiere, e l’obbligherete a
prender la bella persiana a qualunque condizione vi piacerà perché egli
l’ama, e la bella persiana non l’odia punto.
Essendo piaciuto tale consiglio a Khacan, lo
mise in effetto: laonde prima che si
aprisse a Noureddin si pose dietro la porta, ed appena venne aperta si
gettò su di lui cacciandoselo sotto i piedi.
Noureddin volse la testa e riconobbe suo
padre col pugnale in mano, pronto a torgli la vita.
La madre di Noureddin sopraggiunse in quel
momento, e rattenendo il Visir pel braccio, esclamò:
— Che state per fare, signore?
— Lasciatemi — rispose il Visir — voglio
uccidere questo indegno figliuolo!
— Ah! signore — esclamò la madre — uccidete
me piuttosto: io non vi permetterò mai che vi bruttiate le mani nel
vostro sangue.
Khacan si lasciò strappare il pugnale di
mano, ed appena ebbe lasciato Noureddin, costui si gettò ai suoi piedi e
glieli baciò, per dimostrargli quanto si pentiva d’averlo offeso.
— Noureddin — gli disse il Visir —
ringraziate vostra madre, a considerazione della quale io vi perdono.
Voglio anche darvi la bella persiana, ma a condizione che mi promettiate
con giuramento di non riguardarla come schiava, sibbene come vostra
consorte. Siccome dessa è molto savia, dotata di spirito e di miglior
condotta di voi, son sicuro che modererà i vostri giovanili trasporti.
Noureddin, ringraziò suo padre con tutta la
riconoscenza
Un anno dopo l’affare narrato, Khacan essendo
andato al bagno, e costretto da un premuroso affare uscirne ancora tutto
riscaldato, l’aria un poco fredda lo toccò, cagionandogli una flussione
di petto che lo costrinse a coricarsi con una gran febbre.
La malattia aumentò, e scorgendo non lontano
l’ultimo istante della sua vita, tenne il seguente discorso a Noureddin:
— La sola cosa che vi chieggo, morendo, si è
di ricordarti della promessa fattami circa la bella persiana. Io muoio
contento colla fiducia che voi non la abbandonerete mai!
La di lui morte lasciò un inesprimibile
lutto.
Noureddin fu oltremodo afflitto per la
perdita di suo padre e restò per molto tempo senza veder nessuno.
Un giorno finalmente permise si lasciasse
entrare uno de’ suoi intimi amici, il quale cercò di consolarlo, e
vedendolo disposto ad ascoltarlo, gli disse che dopo aver reso alla
memoria di suo padre quanto doveva, era tempo di comparire nel gran
mondo, di ricevere i suoi amici e
sostenere il grado acquistatogli dalla sua nascita.
Si lasciò persuadere senza pena, regalò anche
il suo amico, e quando questo stava sul punto d’andarsene, lo pregò di
tornare l’indomani e di condur seco tre o quattro amici comuni.
Insensibilmente formò una brigata di dieci persone presso a poco della
sua età, coi quali passava il tempo in banchetti e continui godimenti.
Alcune volte per far maggior piacere ai suoi
amici, Noureddin faceva venire la bella Persiana.
Quello che ancora contribuì a disordinare gli
affari di Noureddin, si fu ch’egli non voleva sentir parlar di conti dal
suo maestro di casa, rinviandolo ciascuna volta che costui si presentava
col suo libro, dicendogli:
— Va’, va’, io mi fido assai di te; abbi cura
solamente di aver tutto a buon mercato.
Gli amici di Noureddin intanto erano molto
assidui a far onore alla sua mensa, e non mancavan di coglier
l’occasione onde profittare della sua prodigalità. Essi lo lodavano, lo
lusingavano, e facevano valere perfino la menoma delle sue più
indifferenti azioni.
Sopratutto non obliavano d’innalzare al cielo
quanto gli apparteneva e vi trovavano il loro conto.
— Signore — gli diceva l’uno — io passai
l’altro giorno per la terra che voi avete in tal luogo, nulla di più
magnifico né di meglio addobbato della casa, ed il giardino annesso è un
paradiso di delizie.
— Io son lieto che vi piaccia — rispondeva
Noureddin — che mi si porti una penna, dell’inchiostro e della carta,
onde io ve ne faccia un dono.
Un giorno si picchiò alla porta della camera
dov’egli stava a tavola coi suoi amici, avendo dato licenza agli schiavi
per stare con libertà.
Uno degli amici di Noureddin si alzò per
andare ad aprire: ma questi lo prevenne ed andò egli medesimo. Era il
suo maestro di casa, e Noureddin per ascoltare quanto voleva, andò un
poco fuori della camera e chiuse la porta a metà.
L’amico il quale si era alzato ed aveva
veduto il maestro di casa andò a mettersi tra la cortina e la porta e
udì il maestro di casa tenere il seguente discorso al suo padrone:
— Signore, vi chieggo mille perdoni, se vengo
ad interrompervi in mezzo ai vostri piaceri: ma quanto ho da comunicarvi
mi sembra di tanta importanza, che non ho creduto dovermi dispensare dal
prendermi questa libertà. Or ora ho
terminato gli ultimi miei conti, trovando che quanto aveva preveduto da
lungo tempo e di cui v’ho avvertito più volte è accaduto, cioè, signore,
che non ho più un soldo di tutte le somme datemi per fare le spese. Gli
altri fondi sono eziandio esauriti, ed i vostri fittaiuoli e quelli che
vi debbono redditi mi hanno fatto chiaramente vedere che voi avete
ceduto ad altri quello che essi tenevano del vostro, e io non posso per
nulla esigere da loro sotto il vostro nome. Ecco i miei conti,
esaminateli, e se desiderate che io continui a servirvi, assegnatemi
altri fondi, altrimenti permettetemi di ritirarmi.
Noureddin fu talmente sorpreso da simile
discorso, da non poter rispondere una parola.
L’amico che di nascosto ascoltava, ed aveva
inteso ogni cosa, partecipò agli altri quanto sapeva, dicendo loro:
— Bisogna approfittare di questo avviso: per
me dichiaro esser questo l’ultimo giorno che mi vedrete in casa di
Noureddin.
— Se la cosa è così — risposero gli altri —
noi non abbiamo più nulla a fare in casa sua.
Noureddin ritornò in quel punto. S’era appena
seduto, allorché uno dei suoi amici s’alzò dal suo posto, dicendogli:
— Mio caro, sono assai dispiacente di non
potervi più oltre tener compagnia; però vi prego permettermi di
licenziarmi da voi.
— Quale affare vi costringe a lasciarmi così
presto? — domandò Noureddin.
— Amico — rispose quegli — la moglie mia ha
partorito oggi, e voi non ignorate esser la presenza di un marito sempre
necessaria in simili eventi.
Ciò detto fece una grande riverenza, e partì.
Poco dopo i rimanenti fecero lo stesso l’uno
dopo l’altro, e Noureddin rimase solo.
Non sospettò nulla della risoluzione presa
dai suoi amici di non più vederlo, e andato all’appartamento della bella
Persiana le fece nota la dichiarazione fattagli dal suo maestro di casa.
— Signore — gli disse la bella Persiana —
permettetemi di dirvi che avete voluto operare secondo più vi è
piaciuto, ed ecco presentemente quello che è accaduto. Io non
m’ingannava quando vi prediceva la triste fine che dovevate aspettarvi.
— Io confesso — rispose Noureddin — aver
fatto male a non seguire i salutari avvisi datimi dall’ammirabile
vostra saviezza: ma se ho mangiato tutto il
mio avere, l’ho fatto con una scelta d’amici i quali conosco da molto
tempo, ed essendo onesti e riconoscenti, sono sicuro che non mi
abbandoneranno.
— Signore — soggiunse la bella Persiana — se
non avete altro espediente tranne la riconoscenza dei vostri amici, la
vostra speranza, credetemi, è mal fondata, e col tempo mi saprete dire
se m’inganno.
Noureddin l’indomani non mancò di andare in
casa dei suoi dieci amici i quali abitavano in una medesima strada, e
picchiato alla prima porta, ove stava uno dei più ricchi, venne una
schiava, la quale prima d’aprire, domandò chi fosse.
— Dite al vostro padrone, che è Noureddin.
La schiava, avendo aperto l’introdusse in una
camera, ed entrò in quella del suo padrone, al quale annunziò Noureddin.
— Noureddin! — rispose il padrone con tuono
di dispregio e sì alto che Noureddin l’intese — va’ digli che non vi
sono, e tutte le volte che verrà gli dirai lo stesso.
La schiava ritornò dicendo a Noureddin per
risposta, aver essa creduto vi fosse il suo padrone, ma essersi
ingannata.
Noureddin uscì confusissimo.
Andò a picchiare alla porta d’un altro amico
che gli fece dire lo stesso, ed ottenne la medesima risposta da tutti
gli altri fino al decimo, quantunque fossero tutti in casa.
Allora Noureddin rientrò in sé medesimo, e
riconobbe il suo irreparabile fallo d’essersi follemente fondato
sull’assiduità de’ suoi falsi amici.
Tenne compressa la sua angoscia finché fu
fuori di casa sua; appena entratovi, aprì il varco nella sua afflizione,
e andò a manifestarla alla bella persiana.
— Ebbene, signore, siete adesso convinto
della verità ch’io vi aveva predetta?
— Ah! mia buona amica — esclamò egli — voi
non me l’avete predetto se non troppo giustamente!
— Signore — soggiunse la bella persiana — io
non vedo altro riparo alla vostra sventura, se non di vendere i vostri
schiavi e le vostre masserizie per vivere, finché il cielo vi mostri
qualche altra strada onde trarvi dalla miseria.
Il rimedio parve estremamente duro a
Noureddin: ma che altro avrebbe potuto egli fare nella necessità in cui
era?
Vendé primieramente i
suoi schiavi. Visse alcun tempo col danaro ricavatone, e quando venne a
mancare, fece portare le sue suppellettili al pubblico mercato, ove
furono vendute assai meno del loro giusto valore. Con quello che n’ebbe
ricavato visse alcun tempo, ma finalmente, non gli restò più come fare
altro denaro, e manifestò l’eccesso del suo dolore alla bella persiana.
Noureddin non s’aspettava la risposta che gli
fece quella savia donna.
— Signore — gli diss’ella — io sono vostra
schiava e sapete bene che il defunto Visir vostro padre mi ha comprata
per diecimila piastre d’oro; so che son diminuita di prezzo d’allora in
qua, ma sono pure persuasa che posso essere venduta bene. Pertanto non
differite di condurmi al mercato; col denaro che ne trarrete potrete
andare a fare il mercante in qualche città.
— Ah! leggiadra e bella persiana — esclamò
Noureddin — egli è possibile che abbiate potuto concepire simile
pensiero? Vi ho io date tante prove d’amore perché mi crediate capace di
tanta viltà?
— Signore — soggiunse la bella persiana — io
sono convinta che voi mi amate quanto dite: e Dio sa se la passione che
nutro per voi è inferiore alla vostra, e quanta ripugnanza ho avuta a
farvi simile proposta, ma per distruggere la ragione da voi portata non
ho se non a farvi sovvenire che la necessità non ha legge.
Noureddin conoscendo assai bene la verità che
la principessa gli rappresentava, e non avendo altro mezzo per evitare
una povertà ignominiosa, fu costretto ad adottare il partito
propostogli.
Laonde la condusse al mercato ove si
vendevano le donne schiave, con un cordoglio da non potersi esprimere, e
si rivolse ad un sensale chiamato Hagi Hassan, cui disse:
— Ecco una schiava che voglio vendere; vedi,
ti prego, quanto vale.
Hagi Hassan fece entrare Noureddin e la bella
persiana. Appena s’ebbe tolto il velo che le celava il viso, Hagi Hassan
nel vederla, disse a Noureddin con ammirazione:
— Signore, m’inganno io? Non è questa la
schiava che il Visir vostro padre comprò per diecimila piastre d’oro?
Noureddin lo accertò della verità: ed Hagi
Hassan facendogli sperare che ne trarrebbe una grossa somma, gli promise
d’adoperare tutta la sua arte, per farla comprare al più alto prezzo
possibile.
Hagi Hassan e Noureddin uscirono dalla camera
ove il primo chiuse la bella persiana.
Andò poscia a cercare i mercanti e seguirono
Hagi Hassan, il quale aprì la porta della camera della bella persiana.
Essi la videro con sorpresa, e convennero
unanimemente non potersi dapprima metterla ad un prezzo minore di
quattromila piastre d’oro.
Usciti dalla camera, Hagi Hassan, che gli
seguì dopo di aver chiusa la porta, gridò ad alta voce, senza
allontanarsi:
— A quattromila piastre d’oro la schiava
persiana! Nessuno de’ mercanti non aveva ancor parlato, e si
consigliavano tra di loro dell’aumento che dovevano mettervi, quando
apparve il visir Saouy:
— Apri la porta e fammi veder la schiava.
Saouy restò assai meravigliato quando vide
una schiava d’una sì straordinaria bellezza, e sapendo il nome del
sensale per aver avuto affari con lui, così gli disse:
— Hagi Hassan, non è a quattromila piastre
d’oro che tu la vendi?
— Sì, signore — rispose egli — i mercanti che
vedete hanno convenuto, non è un momento, di bandirla a questo prezzo.
Io però aspetto che se ne esibisca di più.
— Io darò il danaro — soggiunse Saouy — se
niuno offre una somma maggiore.
Quando il Visir Saouy ebbe atteso qualche
momento e veduto che nessun mercante aumentava il prezzo, disse ad Hagi
Hassan:
— Ebbene, che aspetti? Va’ a trovare il
padrone e conchiudi con lui a quattromila piastre d’oro.
Egli non aveva saputo ancora che apparteneva
a Noureddin, Hagi Hassan, che aveva già chiusa la porta della camera,
andò ad abboccarsi con Noureddin, e gli disse:
— Signore, la schiava è vostra: ma non vi
consiglierei mai di darla a tal prezzo, conoscendo benissimo valer la
schiava infinitamente di più ed essere il Visir assai tristo uomo per
non immaginar qualche
mezzo, onde esimersi dal pagarvi la somma.
— Hagi Hassan — rispose Noureddin — ti sono
obbligato del tuo consiglio; ho gran
bisogno di denaro, ma morirei nella più squallida miseria, anziché
concederla a lui. Io ti domando una sola cosa: siccome tu sai tutti gli
usi e tutti gli intrighi, dimmi solamente quel che debbo fare per
impedirnelo?
— Nulla di più facile,
signore — soggiunse Hagi Hassan — fingete di esservi sdegnato contro la
vostra schiava, e d’aver giurato di condurla al mercato, ma non già
coll’intenzione di venderla, sibbene per adempire al giuramento; il che
soddisferà ciascuno, e Saouy non avrà nulla a dirvi. Venite dunque, e
quando io la presenterò a Saouy come se voi aveste acconsentito al
negozio, riprendetela, dandole qualche percossa, e riconducetevela.
— Io ti ringrazio — rispose Noureddin — e
vedrai come seguirò il tuo consiglio.
Hagi Hassan ritornò alla camera, l’aprì ed
entrò; dopo aver avvertita la bella persiana da non maravigliarsi di ciò
che sarebbe accaduto, la prese pel braccio e la condusse al visir Saouy
che stava sempre innanzi alla porta e presentandogliela gli disse:
— Signore, ecco la
schiava, ella è vostra, prendetela!
Hagi Hassan non aveva ancor terminato queste
parole, che Noureddin impadronitosi della bella persiana, la trasse
seco, e dandole uno schiaffo, le disse ad alta voce per essere ascoltato
da tutti:
— Venite qua, impertinente, e tornate meco!
Il vostro tristo carattere mi aveva obbligato a giurare di condurvi al
mercato, ma non già per vendervi.
Il visir Saouy fu grandemente sdegnato di
quell’azione di Noureddin.
— Miserabile dissoluto, vorresti tu darmi a
credere restarti altro a vendere fuori della tua schiava?
Nello stesso tempo spinse il cavallo verso di
lui per togliergli la schiava: ma Noureddin punto al vivo dell’oltraggio
fattogli, lasciava la bella persiana ingiungendogli d’aspettarlo, ed
afferrata la briglia del cavallo, lo fece rincular tre o quattro passi,
dicendo al Visir:
— Infame e birbante, io ti toglierei l’anima
in quest’istesso istante.
Saouy volle fare uno sforzo per obbligare
Noureddin a lasciar la briglia del suo cavallo: ma Noureddin, giovine di
forze erculee, incoraggiato dalla benevolenza degli spettatori, lo tirò
giù dal cavallo, lo percosse mille e
più volte, e gli fece uscir sangue dalla testa, battendogliela contro il
selciato.
Noureddin stanco finalmente di battere Saouy
lo lasciò sul selciato, e riprese la bella persiana, tornandosene a casa
tra gli applausi del popolo.
Saouy, quasi moribondo per le ricevute
percosse, si alzò aiutato dai suoi famigliari con molta fatica, avendo
pure l’altra mortificazione di vedersi imbrattato di sangue e di fango.
Appoggiatosi sulle spalle di due schiavi andò in quello stato a palazzo,
a spettacolo di tutti, con una confusione altrettanto più grande in
quanto che nessuno lo compiangeva. Quando fu sotto l’appartamento dei
re, si pose a gridare in un modo compassionevole, ed il re avendolo
fatto chiamare al suo cospetto, gli chiese chi l’avesse maltrattato e
ridotto nello stato in cui era.
Saouy raccontò la cosa tutto in suo
vantaggio.
Il re sdegnato contro Noureddin, lasciò
scorgere sul suo volto i segni di una gran collera, e voltosi al
capitano delle guardie che gli era vicino, gli disse:
— Prendete quaranta uomini della mia guardia,
e quando avrete saccheggiata la casa di Noureddin, e dato ordine di
demolirla, me lo condurrete innanzi colla sua schiava.
Il capitano delle guardie non era ancor fuori
dell’appartamento del re, che un usciere della camera, il quale intese
dare quest’ordine, l’aveva già prevenuto.
Fu tanto sollecito, che giunse a tempo per
avvertirlo di quanto era accaduto dal re, e dargli tempo di mettersi in
salvo colla bella persiana.
Picchiò alla porta in un modo che obbligò
Noureddin, ad andare ad aprire egli stesso.
— Mio caro signore — gli disse Sangiar — non
siete più sicuro a Bassora; partite e salvatevi senza perdere un momento
e conducete la vostra schiava con voi. Saouy ha raccontato al re, nel
modo che gli è sembrato più acconcio, quello che è accaduto tra voi e
lui, ed il capitano delle guardie vien dopo di me con quaranta soldati
ad impadronirsi di voi e di lei. Prendete queste quaranta piastre d’oro,
perché possiate cercarvi un asilo: ve ne darei di più, se ne avessi
indosso. Scusatemi se non m’arresto più oltre; io vi lascio mio malgrado
per vantaggio vostro e mio, avendo premura che il capitano delle guardie
non mi veda qui.
Noureddin andò ad avvertire la bella persiana
della necessità che v’era di partire ambedue sul momento.
Laonde ella non fece che mettersi il suo
velo, ed uscirono dalla casa.
Ebbero non solo la fortuna di uscire di città
senza che niuno s’accorgesse della loro fuga, ma anche quella di
giungere all’imboccatura dell’Eufrate e d’imbarcarsi sopra un bastimento
pronto a levar l’ancora.
Noureddin non appena imbarcato, chiese dove
andava il vascello e fu lieto di sapere che andava a Bagdad.
Il capitano fece levar l’ancora, e il
vascello s’allontanò da Bassora con un vento favorevolissimo.
Il capitano delle guardie giunse alla casa di
Noureddin e picchiò alla porta.
Quando vide che niuno apriva, la fece
atterrare e imantinenti i soldati vi entrarono, cercando per tutti i più
reconditi bugigattoli, senza trovare né Noureddin né la schiava.
Mentre si saccheggiava e si demoliva la sua
casa. andò a portare la notizia al re, il quale disse:
— Che si cerchino in qualunque luogo, perché
voglio averli nelle mani.
Noureddin e la bella persiana intanto
avanzavano e continuavano il cammino con tutta la fortuna possibile.
Approdarono finalmente a Bagdad.
Noureddin donò cinque piastre d’oro pel suo
viaggio, e sbarcò anch’egli insieme alla bella persiana. Camminarono per
molto tempo lungo i giardini alle sponde del Tigri, finché videro la
porta di un giardino con una bella fontana vicina.
La porta assai magnifica stava chiusa, con un
vestibolo aperto ov’era da ciascun lato un sofà.
Bevvero ciascuno un poco d’acqua alla
fontana, e salirono sopra uno dei due sofà, ove si trattennero per
qualche tempo.
Il sonno, vintili finalmente,
s’addormentarono.
Il giardino apparteneva al Califfo, e vi era
in mezzo un gran padiglione chiamato il Padiglione delle pitture. Stava
in quel giardino un guardaportone solamente, il quale era un ufficiale
molto avanzato di età, di nome Scheich Ibrahim.
Il Califfo gli aveva molto raccomandato di
non lasciarvi entrare nessuno, e sopratutto di non permettere di far
sedere alcuno sui due sofà fuori della porta, affinché stessero sempre
netti, e di castigare quelli che vi troverebbe.
Un affare aveva obbligato il guardaportone di
uscire e non era ancora ritornato.
Finalmente arrivò molto prima che fosse
oscura la notte, per accorgersi che due persone dormivano sopra uno dei
due sofà, con fazzoletti sotto la testa, non avendo cuscini.
— Bene! — disse Scheich Ibrahim — ecco due
persone che contravvengono alla proibizione del Califfo; però è mestieri
insegnar loro il rispetto che gli debbono.
Alzò il fazzoletto che loro copriva la testa
con una grande precauzione e rimase meravigliato al vedere un giovine sì
ben fatto ed una giovane tanto bella; indi destò Noureddin, tirandolo un
poco pei piedi.
Noureddin, alzato subito il capo, appena ebbe
veduto un vecchio con lunga barba bianca a’ suoi piedi si levò a sedere,
ed acconciatosi sulle ginocchia, gli prese la mano e gliela baciò
dicendogli:
— Buon padre, che il cielo vi conservi,
desiderate qualche cosa?
— Figliuolo mio — rispose Scheich Ibrahim —
chi siete? donde venite?
— Siamo stranieri or ora giunti — soggiunse
Noureddin — e vogliamo passar qui la notte fino a domani.
— La passerete assai male qui — ripigliò
Scheich Ibrahim — venite, entrate, vi farò coricare comodamente, e la
vista del giardino che è bellissimo, vi rallegrerà mentre è ancora
giorno.
— E questo giardino appartiene a voi? —
domandò Noureddin.
— Per vero appartiene a me — rispose Scheich
Ibrahim sorridendo — è una eredità avuta da mio padre; entrate, vi dico,
e non vi dispiacerà di vederlo.
Noureddin si alzò, ed entrò nel giardino
colla bella persiana.
Scheich Ibrahim chiuse la porta e camminando
innanzi a loro, li condusse in un luogo donde videro presso a poco la
disposizione, la grandezza e la bellezza del giardino ad un trar
d’occhio.
Noureddin aveva veduto
assai bei giardini, ma non ne aveva ancor visti dei simili a questo.
Quand’egli ebbe ben considerato ed ebbe passeggiato in alcuni viali, si
rivolse al custode e gli domandò come si chiamasse. Appena quello gli
ebbe risposto chiamarsi Scheich Ibrahim:
— Scheich Ibrahim, io vi confesso che è
meraviglioso; Dio ve lo conservi lungo tempo. Non possiamo
sufficientemente ringraziarvi della grazia fattaci, permettendoci di
entrare in un luogo così delizioso, è
giusto che ve ne mostriamo la nostra riconoscenza in qualche modo.
— Tenete, ecco due piastre d’oro, io vi prego
di farci cercare qualche cosa da mangiare affinché godiamo insieme.
Mentre Scheich Ibrahim andò a fare incetta di
che cenare per i suoi ospiti, Noureddin e la bella persiana
passeggiarono nel giardino e giunsero al padiglione delle pitture che
stava in mezzo.
Essi fermaronsi dapprima a contemplare la sua
ammirabile struttura, la sua grandezza e la sua altezza, e dopo averne
fatto il giro, guardandolo da tutti i lati, salirono alla porta del
salone per una scala di marmo bianco, ma la trovarono chiusa.
Noureddin e la bella persiana discendevano
quando Scheich Ibrahim giunse carico di viveri.
— Scheich Ibrahim — gli disse Noureddin —
questo superbo padiglione è anch’esso vostro?
— Figliuol mio — rispose egli — il padiglione
non va senza il giardino, per cui l’uno e l’altro mi appartengono.
— Poiché la cosa sta così — ripigliò allora
Noureddin — e che voleste fossimo ospiti vostri questa notte, fateci, ve
ne suplico, la grazia di farcene veder l’interno; a giudicar
dall’esterno dev’essere d’una straordinaria magnificenza.
Scheich Ibrahim posò i viveri portati sul
primo gradino della scala e andò a cercare la chiave nella casa ch’egli
abitava, poi ritornando con una candela, aprì la porta.
Noureddin e la bella
persiana entrarono nel salone. Intanto Scheich Ibrahim portò i viveri,
preparò la tavola sopra un sofà, e quando tutto fu pronto, Noureddin, la
bella persiana ed egli, si sedettero e mangiarono insieme.
Quando ebbero terminato e che si ebbero
lavate le mani, Noureddin chiese se avesse qualche bevanda di cui
volesse favorirli.
— Quale bevanda vorreste? del vino? — replicò
Scheich Ibrahim.
— L’avete indovinata: se ne avete, favoriteci
di portarcene una bottiglia.
— Dio mi guardi dall’aver vino presso di me —
esclamò Scheich Ibrahim — ed anche d’avvicinare un luogo in cui ve ne
fosse. Un uomo come me, che ha fatto il pellegrinaggio della Mecca
quattro volte, ha rinunciato al vino per tutta la sua vita.
— Peraltro ci fareste un gran piacere di
trovarcene — rispose Noureddin — e se ciò non vi arreca pena, io
v’insegnerò un mezzo senza entrare nella taverna, e senza metter mano al
recipiente che lo conterrà.
— Io lo farò a questa condizione — rispose
Scheich Ibrahim — ditemi solamente in qual modo?
— Noi abbiamo veduto un asino attaccato
all’ingresso della porta del vostro giardino — disse allora Noureddin —
ed a quel che sembra è vostro. Tenete, ecco due altre piastre d’oro,
prendete l’asino co’ suoi panieri, ed andate alla prima taverna senza
accostarvici che quanto vi piacerà; date qualche cosa al primo venuto,
pregatelo d’andare fino all’osteria coll’asino, di prendervi due
guastade di vino da mettersi in un paniere una, e l’altra nell’altro, e
di ricondurvi l’asino dopo aver pagato. Voi non avrete che da far venir
l’asino sin qui, e prenderemo le guastade noi medesimi nei panieri. In
tal guisa non farete nulla che possa arrecarvi la menoma ripugnanza.
Le due piastre d’oro che Scheich ricevé
fecero un potente effetto sul suo animo.
E li lasciò per andare ad eseguire la
commissione. Appena fu di ritorno, Noureddin gli disse:
— Non abbiamo tazze e ci piacerebbe aver
delle frutta se ne avete.
— Voi non avete che a parlare — replicò
Scheich Ibrahim — non vi mancherà nulla di tutto ciò che potete
desiderare.
Scheich Ibrahim discese, ed in poco tempo
preparò loro una tavola coperta di bella porcellana colma di parecchie
sorta di frutta, con tazze d’oro e d’argento a scegliere: e quando ebbe
loro chiesto se avessero bisogno di qualche altra cosa, si ritirò.
Noureddin e la bella persiana si rimisero a tavola e cominciarono a bere
trovando eccellente il vino. Bevvero parecchie volte, conversando
piacevolmente, e cantando ciascuno qualche canzone. La bella persiana
s’accorse che Scheich Ibrahim erasi fermato sotto il verone e ne avvertì
Noureddin, dicendogli inoltre:
— Signore, voi vedete che egli mostra una
grande avversione pel vino; io non dispererei di fargliene bere, se
volete fare quello che vi dirò.
— E che? — chiese Noureddin — voi non avete
che a parlare, ed io farò tutto quello che vorrete.
— Persuadetelo solamente ad entrare e a
restar con noi — diss’ella — dopo qualche tempo mescete e
presentategli la tazza; se ricusa, bevete
voi, e poscia fate vista di dormire, che io farò il rimanente.
Noureddin, compresa la intenzione della bella
Persiana disse a Scheich Ibrahim:
— Noi siamo vostri ospiti, voi ci avete
accolti colla maggior cortesia del mondo; vorrete ricusarci il piacere
di volerci onorare colla vostra compagnia? Non vogliamo che beviate, ma
solamente ci facciate il piacere di starvene con noi.
— Io farò dunque quello che vi piacerà —
disse Scheich Ibrahim.
Ed avvicinatosi sorridente pel piacere
d’accostarsi a sì vaga donna, andò a sedersi vicino alla bella persiana.
Noureddin la pregò di cantare una canzone in
considerazione dell’onore che Scheich Ibrahim faceva loro; essa ne cantò
una che lo rapì in estasi.
Quando la bella persiana ebbe terminato di
cantare, Noureddin versò del vino in una tazza e la presentò a Scheich
Ibrahim dicendogli:
— Scheich Ibrahim bevete una coppa alla
nostra salute, ve ne prego.
— Signore — rispose Scheich Ibrahim — come se
si fosse spaventato nel solo vedere il vino — vi supplico di scusarmi,
io vi ho già detto d’aver rinunziato da molto tempo al vino.
— Poiché assolutamente voi non volete bevere
alla nostra salute, permettete che io beva alla vostra.
La bella persiana prese una tazza, la riempì
di vino e presentandola a
Scheich Ibrahim gli disse:
— Prendete e bevete alla mia salute, che io
vi corrisponderò!
Scheich Ibrahim vinto dalle sue bellezze e
dalle sue preghiere, prese la tazza e bevve senza nulla lasciarvi. Il
buon vecchio amava di bere, ma si metteva vergogna di farlo inanzi a
gente che non conosceva.
Quando dopo molte insistenze Scheich Ibrahim
ebbe bevuta la quarta tazza di vino, Noureddin, guardandolo, dette in un
grande scoppio di risa, dicendogli:
— Ab, ah, Scheich Ibrahim, io vi ho preso!
Voi mi avete detto che avevate rinunciato al vino, ed intanto non
lasciate di berne.
— Signore, se vi è peccato in quello che ho
fatto, non deve cader sopra di me, ma sopra la vostra compagna; poiché è
impossibile di resistere a tante grazie!
Scheich Ibrahim, Noureddin e la bella
persiana dettero in uno scoppio di risa e continuarono a
trastullarsi, e ridere ed a bere fino a
mezzanotte; quando la bella persiana s’accorse che la tavola non era
illuminata che da una sola candela:
— Scheich Ibrahim — diss’ella al buon vecchio
custode — voi avete portato una sola candela, mentre qui vi sono tante
belle torce. Fateci, vi prego, il piacere di accenderle, finché ci
vediamo chiaro.
Scheich Ibrahim usando della libertà che dà
il vino quando se ne ha riscaldata la testa ed affine di non
interrompere un discorso incominciato con Noureddin, rispose a quella
bella donna:
— Accendetele voi medesima, ma badate di non
accenderne più di cinque o sei.
La bella persiana s’alzò, andò a prendere una
candela, l’accese a quella che stava sulla tavola, ed accese ottanta
torce.
Poco dopo, mentre Scheich Ibrahim conversava
con la bella persiana su di un altro argomento, Noureddin a sua volta,
lo pregò di voler accendere qualche fanale.
— Bisogna — rispose Scheich Ibrahim — che
siate pigro o che abbiate minor vigore di me, se non potete accenderlo
da voi medesimo. Andate, accendeteli, ma non più di tre.
Invece di accenderne tre li accese tutti, ed
aprì le ottanta finestre.
Il califfo Haroun-al-Rascid non s’era ancora
coricato, e stava in un salone del suo palazzo che s’avanzava fino sul
Tigri e guardava dalla parte del giardino e del padiglione delle
pitture. Avendo per caso aperta una finestra da quella parte, fu
sorpreso di vedere il padiglione tutto illuminato.
Il gran visir Giafar era ancora con lui. Il
Califfo lo chiamò con grande sdegno e gli disse:
— Negligente Visir, dimmi perché il
padiglione delle pitture è illuminato a quest’ora mentre io non vi sono?
— Commendatore de’
credenti — gli disse — io non posso dire altra cosa all’uopo alla Maestà
Vostra, se non che quattro o cinque giorni or sono è venuto a
presentarsi a me Scheich Ibrahim, manifestandomi che aveva disegno di
raccogliere un’assemblea di ministri della sua moschea per una certa
cerimonia che era ben facile fare sotto il regno della Maestà Vostra. Io
gli chiesi che cosa desiderava facessi per servirlo in tale occasione,
ed egli mi supplicò d’ottenere dalla Maestà vostra il permesso d’adunare
l’assemblea e fare
a cerimonia nel vostro
padiglione. Io lo accomiatai dicendogli che poteva farlo, e che non
avrei mancato di parlarne alla Maestà Vostra, cui chieggo perdono
d’essermene dimenticato.
— Poiché la cosa va in
tal modo — gli disse sorridendo il Califfo — è giusto che tu sia punito
di questi falli: ma la punizione ne sarà leggiera, cioè di passare il
rimanente della notte come me con quella buona gente che io son curioso
di vedere. Mentre io vado a vestire un abito da privato, va’ tu pure a
travestirti insieme a Mesrour.
Il Califfo uscì dunque dal suo palazzo
travestito da privato col gran visir Giafar, e Mesrour capo degli
eunuchi, e camminò per le strade di Bagdad, finché giunse al giardino.
La porta v’era aperta per negligenza di Scheich Ibrahim, il quale si era
dimenticato di chiuderla ritornando dal comprare il vino.
Il Califfo ne fu scandalizzato; entrò nel
giardino: e appena fu giunto al padiglione salì senza far rumore in modo
da poter vedere quelli che erano dentro senza esserne veduto.
Fu grande la sorpresa nel vedere una donna di
bellezza senza pari ed un giovine de’ più ben fatti con Scheich Ibrahim
seduto a tavola con loro.
Egli s’allontanò dalla porta, ed andò al gran
Visir Giafar che stava sulla scala.
— Sali — gli disse — e vedi se quelli che
stanno là dentro siano ministri di moschea, come tu hai voluto farmi
credere.
Il gran Visir salì e guardando per l’apertura
della porta, fu compreso da terrore.
Scheich Ibrahim diceva alla bella persiana:
— Mia amabile signora, v’ha qualche altra
cosa che possiate desiderare per rendere più compiuta la gioia di questa
serata?
— Mi sembra — rispose la bella persiana — che
tutto andrebbe a meraviglia, se avessi uno strumento onde poter suonare.
Scheich Ibrahim trasse un liuto da un
armadio, e lo presentò alla bella persiana, la quale cominciò ad
accordarlo.
Cominciò a cantare un’aria ed accompagnò la
sua voce, ch’era ammirabile, col liuto, e lo fece con tanta arte e
professione che il Califfo ne rimase meravigliato.
Appena la bella persiana ebbe terminato di
cantare, il Califfo discese dalla scala, e il gran Visir lo seguì.
Quando furono abbasso il Califfo disse al Visir:
— In fede mia non ho mai inteso una così
bella voce, né mai suonare il liuto con tanta maestria. Ne sono sì
contento, che voglio entrare, onde sentirla suonare innanzi a me. Ma in
qual modo lo farò?
— Commendatore de’ credenti — rispose il gran
Visir — se voi entrate, Scheich Ibrahim, riconoscendovi, ne morrà di
terrore.
— Però non saprei come regolarmi — soggiunse
il Califfo — e sarei moltissimo dispiacente d’esser cagione della sua
morte dopo tanto tempo che mi serve. Mi sorge un pensiero: resta qui con
Mesrour, ed attendete il mio ritorno.
In quella medesima
notte un pescatore passando innanzi alla porta del giardino, dopo che il
Califfo vi era entrato e l’avea lasciata aperta, profittando
dell’occasione, s’era introdotto nel giardino fino alla vasca
dell’acqua. Quel pescatore aveva gettate le sue reti e stava per
ritirarle nel momento in cui il Califfo andava allo stesso luogo.
Ad onta del suo travestimento il pescatore
riconosciutolo s’inginocchiò.
— Alzati e non temer nulla — disse il
Califfo: — tira solamente le tue reti affinché io veda qual pesce vi sia
dentro.
Il pescatore rassicurato seguì prontamente
quello che il Califfo desiderava e gli pose innanzi cinque o sei bei
pesci, di cui il Califfo scelse i due più grossi.
Dipoi disse al pescatore:
— Dammi il tuo abito, e prendi il mio.
Il cambio si fece in pochi minuti, ed appena
il Califfo fu vestito da pescatore dalla calzatura fino al turbante,
disse al pescatore:
— Prendi le tue reti e vattene pe’ tuoi
affari.
Partito il pescatore assai contento della sua
buona fortuna, il califfo prese i due pesci, salì al salone e picchiò
alla porta.
Noureddin, che l’intese il primo, ne avvertì
Scheich Ibrahim, che domandò chi fosse.
Il Califfo aprì la porta, ed avanzatosi un
passo nel salone per farsi vedere, rispose:
— Scheich Ibrahim, io sono il pescatore Kerim:
siccome ho veduto che convitate degli amici, avendo in questo momento
pescato due bei pesci, vengo a domandarvi se ne avete bisogno.
Noureddin e la bella persiana furono rapiti
nel sentire parlare di pesci.
Scheich Ibrahim — disse immantinente la
bella persiana — vi prego che ci
facciate il piacere di farlo entrare, affinché vediamo che pesce ha.
Scheich Ibrahim, non più in istato di
domandare al preteso pescatore come e per dove era entrato, pensò
solamente a compiacere la bella persiana. Laonde rivoltosi dalla parte
della porta con molta pena, tanto aveva bevuto, disse balbettando al
Califfo, ch’egli prendeva per un pescatore:
— Avvicinatevi buon ladro di notte,
avvicinatevi, affinché li vediamo!
Il Califfo s’avvicinò contraffacendo
perfettamente bene tutte le maniere di un pescatore, e presentò i due
pesci.
— Ecco dei bellissimi pesci — disse la bella
persiana — io li mangerei volentieri se fossero cotti, e bene
accomodati.
— La signora ha ragione — rispose Scheich
Ibrahim — che vuoi tu che facciamo del tuo pesce se non è arrostito? Va’
fallo cuocere tu stesso e portacelo: troverai tutto nella mia cucina.
Tutti e tre posero mano all’opera, e
quantunque la cucina di Scheich Ibrahim non fosse grande, pur nondimeno,
non mancando di nulla delle cose di cui abbisognavano, accomodarono ben
presto il piatto del pesce.
Il Califfo lo portò, e servendolo vi posero
anche dei limoni.
Mangiarono con un grande appetito,
particolarmente Noureddin e la bella persiana, e il Califfo restò
innanzi ad essi.
Quando ebbero terminato, Noureddin guardò il
Califfo e gli disse:
— Pescatore, non si può mangiar miglior pesce
di questo, e ci hai fatto il più gran piacere nel portarcelo.
Nello stesso tempo, frugandosi nel seno, ne
trasse la sua borsa, ove stavano trenta piastre d’oro.
— Prendi — gli disse — te ne darei di più se
ne avessi. Ti avrei posto al coperto della povertà, se ti avessi
conosciuto prima di dissipare tutto il mio patrimonio, ma non
tralasciare però di accettarlo collo stesso buon cuore con cui te lo do.
Il Califfo prese la borsa e così gli rispose:
— Signore, io non posso abbastanza
ringraziarvi della vostra liberalità: ma prima di ritirarmi ho da
chiedervi un favore che vi supplico di concedermi. Ecco un liuto il
quale mi fa conoscere che la signora sappia
suonarlo. Se poteste ottenere da lei che mi
facesse la grazia di suonare un pezzo solo, me ne andrei come il più
contento fra tutti gli uomini, perché è uno strumento che amo
immensamente.
— Bella persiana — disse subito Noureddin
rivolgendosi a lei — io vi chiedo questa grazia e spero che non me la
ricuserete.
Essa prese il liuto, e dopo averlo accordato
in pochi momenti, suonò e cantò un’aria con tanta forza e grazia, che il
Califfo ne andò in estasi.
Quando la bella persiana ebbe cessato di
cantare, questi esclamò:
— Ah! qual voce, qual mano e qual suono!
Noureddin abituato a dare quanto gli
apparteneva a tutti coloro che ne facevano le lodi, disse al Califfo:
— Pescatore, io vedo bene che tu sai il fatto
tuo; poiché ti piace tanto, ella è tua, te ne fo un dono.
Ma il califfo, sorpreso di quanto sentiva,
gli disse:
— Signore, a quel che vedo, questa signora
così bella, così rara ed ammirabile che mi donate con tanta generosità,
è vostra schiava, e voi ne siete il padrone.
— Ciò è vero Kerim — rispose Noureddin — e tu
saresti assai più meravigliato, se ti raccontassi tutte le disgrazie che
mi sono accadute per ciò.
— Eh, di grazia, signore, — soggiunse il
Califfo rappresentando sempre bene la parte del pescatore — fatemi il
favore di raccontare la vostra storia.
Noureddin gli raccontò tutta la sua storia.
Quando ebbe terminato, il Califfo gli
domandò:
— E presentemente ove andate?
— Ove vado? — rispose egli — Dio mi condurrà!
— Se volete seguire il
mio consiglio — soggiunse il Califfo — non andrete assai lungi; anzi al
contrario è mestieri che ritorniate a Bassora. Io vi darò una lettera
che darete al re da parte mia, e vedrete che vi riceverà assai bene
appena l’avrà letta, e che nessuno vi dirà una parola.
Noureddin acconsentito a quello che il
Califfo voleva, essendovi nel salone quanto occorreva per scrivere, il
Califfo scrisse la seguente lettera al re di Bassora, in cima alla
quale, quasi sull’estremità della carta, aggiunse questa forma in
piccolissimi caratteri: «In nomo di Dio misericordiosissimo» per segno
che voleva essere obbedito assolutamente.
«Haroun-al-Rascid,
figliuolo di Mahdi, a Mohammed Zinebi suo cugino:
Appena Noureddin,
figliuolo del visir Khacan, ti porterà questa lettera e l’avrai letta,
spogliati sul momento del tuo manto reale, mettiglielo sulle spalle, e
fallo sedere al tuo posto sensa mancare.
Addio. »
Il Califfo piegò e suggellò la lettera, e
senza dire a Noureddin che cosa contenesse:
— Tenete — gli disse — e andate ad imbarcarvi
senza indugio sopra un bastimento che metterà alla vela subito.
Noureddin prese la lettera e partì col poco
denaro che aveva indosso lasciando inconsolabile la bella persiana che
proruppe in lagrime.
Appena Noureddin uscì dal salone, Scheich
Ibrahim, il quale era stato in silenzio durante tutto l’accaduto
guardando il Califfo, che prendeva sempre pel pescatore Kerim, gli
disse:
— Kerim, tu ci hai portati due pesci che
valgono al più venti monete di rame, e per ciò hai avuta una borsa e una
schiava; pensi tu che tutto ciò debba essere per te solo?
Il Califfo, sempre sotto il personaggio di
pescatore, rispose arditamente a Scheich Ibrahim:
— Scheich Ibrahim, io non so quanto vi sia
nella borsa: ma oro ed argento io li dividerò con voi per metà con tutto
il cuore: in quanto alla schiava, io voglio tenerla per me solo.
Scheich Ibrahim
trasportato dalla collera a questa insolenza, riguardandola come
fattagli da un pescatore, prese una delle tazze che stavano sulla
tavola, e la gettò sulla testa del Califfo, il quale durò molta fatica a
scansarla.
Il Califfo colse quell’occasione, per
picchiare colle mani ad una delle finestre.
Il gran Visir, Mesrour ed i quattro servitori
gli tolsero d’un subito l’abito da pescatore, mettendogli quello che gli
aveano portato.
Non avevano ancora terminato e stavan
tuttavia occupati intorno al Califfo assiso sul trono che aveva nel
salone, quando Scheich Ibrahim animato dall’interesse, rientrò con un
grosso bastone.
Invece di trovar lui, scòrse il suo abito in
mezzo al salone, e vide il Califfo
seduto sul suo trono col gran Visir e Mesrour a’ suoi fianchi.
Egli si fermò a quello spettacolo.
Il Califfo si pose a ridere del suo stupore e
gli disse:
— Scheich Ibrahim, che vuoi, che cerchi?
Scheich Ibrahim, che non poteva più dubitare
che quello fosse il Califfo, si gettò a’ suoi piedi colla faccia e la
sua lunga barba contro terra, esclamando:
— Commendatore de’ credenti, il vostro vile
schiavo vi ha offeso, ed implora la vostra clemenza, chiedendovene mille
perdoni!
Avendo i camerieri finito di vestire il
Califfo, questi discese il trono dicendo a Scheich Ibrahim:
— Alzati, io ti perdono!
Il Califfo si rivolse poscia alla bella
persiana:
— Bella persiana — le disse — alzatevi, e
seguitemi. Noureddin l’ho mandato a Bassora per esservi re, e manderò
anche voi ad esservi regina, appena gli avrò mandati i decreti necessari
per la sua investitura. Io vado intanto a darvi un appartamento nel mio
palazzo, ove sarete trattata secondo il vostro merito.
Il ritorno di Noureddin a Bassora fu più
felice di quanto avrebbe potuto desiderare.
Il re ricevette la lettera, l’aprì e cangiò
di colore nel leggerla. La baciò per ben tre volte, e stava per eseguire
l’ordine, quando avvisò di mostrarla al Visir Saouy, nemico
irreconciliabile di Noureddin.
Saouy, immaginò in un momento il mezzo di
eluder l’ordine, e fingendo di non aver ben letto, si trasse un poco in
disparte come per aver più luce.
Allora senza che niuno se ne accorgesse,
strappò destramente la formola in cima alla lettera, la portò alla bocca
e l’inghiottì. Dopo sì grande malvagità, si rivolse dalla parte del re,
gli rese la lettera e parlando sommesso gli chiese:
— Ebbene, Sire, qual è l’intenzione della
Maestà Vostra?
— Di fare quanto il Califfo mi comanda —
rispose il Re.
— Guardatevene bene, sire — soggiunse il
malvagio Visir — questa è la scrittura del Califfo, ma la formola non vi
è...
Il re l’aveva veduta, ma nel turbamento in
cui stava s’immaginò d’essersi ingannato, non vedendola più.
Il re Zinebi lasciossi persuadere ed
abbandonò Noureddin alla discrezione del visir Saouy, il quale lo
condusse a casa sua con forte mano di soldati.
Appena vi fu giunto, gli fece dare le
bastonate fino a che restasse come morto, ed in quello stato lo fece
portare in prigione.
L’afflitto Noureddin restò dieci giorni
interi in quello stato. Il visir Saouy risoluto di fargli perdere la
vita vergognosamente, andò a presentarsi al re.
— Sire — disse allora Saouy — io sono
infinitamente obbligato alla Maestà Vostra della giustizia che mi rende:
ma siccome Noureddin m’ha oltraggiato pubblicamente, così chieggo in
grazia di permettermi che si faccia l’esecuzione innanzi al palazzo, e
che i banditori vadano ad annunziarli in tutte le contrade della città
affinché niuno ignori che l’offesa da lui fattami sarà pienamente
vendicata.
Il re gli concedette quanto domandava, ed i
banditori, facendo il loro dovere, divulgarono nella città una tristezza
generale; perché la recentissima memoria della virtù del padre fece sì
che tutti s’indignassero che si facesse ignominiosamente morire il
figliuolo.
Saouy andò egli medesimo alla prigione,
accompagnato da una ventina de’ suoi schiavi, ministri della sua
crudeltà.
Gli si condusse Noureddin e lo fece salire
sopra un cattivo cavallo senza sella.
Quando l’ebbe condotto fino al largo del
palazzo in faccia all’appartamento del re, lo lasciò tra le mani del
carnefice, e andò dal re.
Il carnefice approssimatosi a Noureddin, gli
disse: — Signore, vi supplico di perdonarmi la vostra morte, io non sono
che uno schiavo e non posso dispensarmi dal fare il mio dovere; a meno
che non abbiate bisogno di qualche cosa, mettetevi se vi piace in istato
di ricevere il colpo, perché il re or ora mi comanderà di ferirvi.
In quel punto il desolato Noureddin esclamò:
— Vi sarebbe qualche caritatevole persona che
volesse portarmi dell’acqua per istinguere la mia sete?
Ne fu portato un vaso all’istante.
Il Visir Saouy, accorgendosi del ritardo,
gridò al carnefice dalla finestra del gabinetto del re:
— Che, aspetti? Colpisci!
A queste parole
barbare e piene d’inumanità, tutto
il largo rimbombò di
vive imprecazioni contro lui: ed il re geloso della sua autorità, non
approvò quell’audacia in sua presenza, e lo mostrò ordinando di
aspettare. Ma vi fu un’altra ragione: perché in quel momento, alzati gli
occhi verso una strada, vi scorse nel mezzo una schiera di cavalieri i
quali correvano a briglia sciolta.
— Era il gran visir Giafar col suo seguito
che veniva da Bagdad in persona da parte del Califfo.
Appena entrò nella piazza, ciascuno si trasse
a parte per fargli largo, gridando grazia per Noureddin.
Il re di Bassora, avendo riconosciuto il
primo ministro del Califfo, gli andò incontro e lo ricevette
all’ingresso del suo appartamento.
Il gran Visir domandò prima d’ogni altra cosa
se Noureddin viveva ancora. Il re rispose di sì e diede l’ordine di
farlo venire.
Apparve subito, ma legato; ei lo fece
sciogliere e mettere in libertà e comandò che si assicurassero del Visir
Saouy, legandolo colle medesime corde.
Il gran Visir Giafar non istette che una
notte a Bassora, ripartendo l’indomani conducendo seco Saouy, il re di
Bassora e Noureddin.
Quando giunse a Bagdad li presentò al
Califfo, e dopo avergli reso conto del suo viaggio e particolarmente
dello stato in cui aveva trovato Noureddin, e del modo in cui era stato
trattato, pel consiglio e per l’odio di Saouy, il Califfo propose a
Noureddin di mozzar egli medesimo il capo al Visir Saouy.
— Commendatore de’ credenti — rispose
Noureddin — ad onta di tutti i mali che abbia potuto fare a me e al
defunto mio padre, mi terrei pel più infame di tutti gli uomini se
bagnassi le mie mani nel suo sangue!
Il Califfo gli seppe buon grado della sua
generosità e fece eseguire quella giustizia dalle mani del carnefice.
Il Califfo voleva mandare Noureddin a Bassora
per regnarvi. Ma Noureddin lo supplicò di volernelo dispensare,
dicendogli:
— Commendatore de’ credenti, la città di
Bassora mi è ora in tanta avversione, dopo quanto mi è accaduto, che oso
supplicare la Maestà vostra di permettermi di mantenere il giuramento
che ho fatto di non ritornarvi mai più per tutta la vita.
Il Califfo lo pose nel numero de’ suoi più
intimi cortigiani, gli rese la bella persiana, e lo beneficò tanto
che vissero insieme fino alla morte
con tutta la felicità desiderabile.
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