STORIA DEL SESTO FRATELLO DALLE LABBRA SPEZZATE
Dapprima costui s’industriò molto bene colle
cento dramme avute in eredità come gli altri fratelli: ma un rovescio di
fortuna lo ridusse nella necessità di domandar l’elemosina. Vi riusciva
benissimo, e soprattutto cercava procurarsi l’adito nelle grandi
abitazioni pel mezzo dei famigliari, affine di avere un libero accesso
presso i padroni e muovere la loro compassione.
Un giorno, passando innanzi ad un palagio
magnifico, la cui porta lasciava vedere un cortile spaziosissimo, si
rivolse ai portinai, e li pregò a fargli l’elemosina.
— Entrate — gli
risposero — e dirigetevi al padrone.
Mio fratello entrò nel vastissimo palagio.
Arrivato ad un grand’edificio quadrato d’una bellissima architettura,
entrò in un vestibolo da dove scorse un bellissimo giardino. Avanzossi,
ed entrò in una camera riccamente addobbata dove scorse un venerabile
uomo con lunga barba bianca seduto sopra un sofà.
Infatti era il Barmecida stesso, il quale gli
diede col modo più obbligante il benvenuto, domandandogli quel che
desiderava.
— Signore — gli rispose mio fratello — sono
un pover’uomo ed ho bisogno del soccorso de’ potenti e generosi come
voi.
— Il Barmecida esclamò:
— È possibile ch’io
stando a Bagdad, un uomo come voi viva in tanta necessità? Ah! non posso
soffrirlo.
— Signore — replicò mio fratello — vi giuro
che oggi non ho mangiato niente.
— Possibile! — rispose il Barmecida — che
siate digiuno a quest’ora? Ohimè! il povero uomo muore di fame! Olà
servi, portateci il bacino e l’acqua affinché ci laviamo le mani.
Benché niun servo apparisse, e mio fratello
non vedesse né acqua né bacino, il
Barmecida nondimeno si fregava le mani come se qualcuno vi avesse
versato l’acqua al di sopra, e ciò facendo diceva a mio fratello:
— Avvicinatevi dunque, lavatevi come me.
Schahabac, gli si avvicinò e fece come lui.
— Andiamo — disse allora il Barmecida —
portateci il pranzo, senza farci aspettare.
Ciò detto, quantunque non si portasse nulla,
fece come se avesse preso qualche cosa da un piatto, e portato alla
bocca, e masticando a vuoto, disse a mio fratello:
— Mangiate, ospite mio, ve ne prego, operate
liberamente come se foste in casa vostra.
— Che dite di questo pane — riprese il
Barmecida — non lo trovale eccellente?
— Ah, signore — soggiunse mio fratello non
vedendo né pane né carne — non ne ho mai mangiato di così bianco e
delicato.
— Mangiate dunque tutta la vostra porzione —
replicò il Barmecida.
— Che si apporti ora un intingolo — esclamò
Barmecida; — ebbene, che ve ne pare?
— È meraviglioso — soggiunse Schahabac — vi
si sente l’ambra, il garofano, la noce moscata, lo zenzero, il pepe ed
erbe odorifere, di cui una non impedisce di sentir l’altra: oh quale
voluttà!
— Fate onore a quest’intingolo — replicò il
Barmecida — mangiate dunque, ve ne prego.
— Signore — gli rispose mio fratello, cui
facevan male le mascelle a forza di masticare a vuoto — vi assicuro che
son talmente sazio, da non poter più mangiare un sol boccone.
— Mio ospite — riprese
il Barmecida — dopo aver sì ben mangiato, bisogna bere. Voi bevete anche
del vino?
— Signore — gli disse mio fratello — non bevo
vino, se vi piace, essendomi proibito.
— Siete troppo scrupoloso — replicò il
Barmecida — fate come me.
— Ne beverò dunque per compiacenza —
soggiunse Schahabac.
Il Barmecida ordinò il vino: ma non fu più
reale della carne.
Egli finse di mescere
e di bere per il primo; poi di versarne a mio fratello e presentargli il
bicchiere, dicendo:
— Bevete alla mia salute, e ditemi se lo
trovate buono!
Mio fratello finse di prender il bicchiere,
di guardarlo come per vedere se il colore del vino era bello, e di
portarlo al naso per giudicare se l’odore era piacevole; poi fece un
profondo inchino al Barmecida, per dimostrargli qualmente prendevasi la
libertà di bere alla sua salute.
— Signore — diss’egli — io trovo questo vino
eccellente: ma non mi sembra tanto forte.
— Se lo desiderate più forte non avete che a
parlare — rispose il Barmecida — nella mia cantina ve ne ha di molte
specie. Vedrete se vi contenta quest’altro.
Ciò detto, finse versarsi altro vino per sé e
poscia a mio fratello, e lo fece tante volte che Schahabac, fingendo che
il vino l’avesse riscaldato, contraffece l’ubriaco, ed alzando la mano
batté sì fortemente sulla testa del Barmecida che lo rovesciò per terra.
Voleva batterlo ancora, ma il Barmecida
difendendosi colla mano, esclamò:
— Siete pazzo?
Allora mio fratello rattenendosi, gli disse:
— Signore, voi avete avuta la bontà di
ricevere in casa vostra un vostro schiavo e di dargli un gran banchetto.
Dovevate contentarvi di avermi dato da mangiare. Non bisogna darmi del
vino.
Com’ebbe terminato queste parole, il
Barmecida, invece d’inquietarsi, si mise a ridere a più non posso
dicendo:
— È lungo tempo che vado in traccia d’un uomo
del vostro carattere!
Il Barmecida fece mille carezze a Schahabac
aggiungendo:
— Non solo vi perdono il colpo datomi, ma
voglio altresì che diveniamo amici e non abbiate altra casa che la mia.
Avete avuto la compiacenza di accomodarvi al mio umore e la pazienza di
sostenere la burla fino alla fine: ma ora mangeremo realmente.
Ciò detto picchiò le mani comandò a diversi
famigli d’imbandire la tavola e di servire. Venne obbedito prontamente,
e mio fratello fu regalato delle stesse vivande gustate prima col
pensiero.
Il Barmecida trovò in mio fratello tanto
spirito, e tanta intelligenza in tutte le cose, che pochi giorni dopo
gli affidò la cura di tutta la sua casa e di tutti i
suoi affari. Mio fratello compì benissimo il
suo dovere per lo spazio di venti anni.
Dopo questo tempo il Barmecida aggravato
dalla vecchiaia morì, e non avendo lasciati eredi, si confiscarono tutti
i suoi beni a favore del Principe. Si spogliò mio fratello di quanto
aveva ammassato, sì che vedutosi ridotto al suo primo stato, si unì ad
una carovana di pellegrini della Mecca.
Per sciagura la carovana fu attaccata e
saccheggiata da una banda di beduini, superiore a quella dei pellegrini.
Mio fratello divenne schiavo di un beduino, il quale gli diede una
bastonata per obbligarlo a riscattarsi.
Schahabac protestò di essere bastonato
inutilmente dicendo:
— Io sono vostro schiavo, e potete disporre
di me a vostro grado: ma vi dichiaro esser io in estrema povertà,
impossibilitato quindi di riscattarmi.
Mio fratello ebbe un bell’esporgli la sua
miseria e provare di commuoverlo con le lacrime, il beduino fu
impassibile: e pieno di dispetto di vedersi defraudato di una somma
considerevole, su cui aveva contato, prese il suo coltello e gli fendé
le labbra; e dopo averlo mutilato in modo barbaro lo condusse sopra un
cammello sulla cima d’una montagna deserta, dove lo lasciò.
Alcuni viaggiatori avendolo incontrato mi
avvertirono del luogo ove egli era. Vi accorsi sollecitamente, e trovai
lo sfortunato Schahabac in uno stato deplorevole.
Lo soccorsi e lo ricondussi meco.
— Ecco quanto raccontai al Califfo Mostanser
Billah — aggiunse il barbiere. — Questo Principe mi applaudì con nuovi
scoppi di risa.
— Veramente — soggiunse — il titolo di
Taciturno non vi è stato dato invano: ma per certe ragioni nondimeno
vi comando di uscire al più presto della città. Andate, e che io non
senta più parlare di voi.
Io cedetti alla necessità, viaggiando
parecchi anni in lontani paesi.
Saputo finalmente la
morte del Califfo, feci ritorno a Bagdad, ove non trovai più nessuno dei
miei fratelli in vita. Fu al mio ritorno in quella città che resi al
giovine zoppo il servigio importante da voi conosciuto: e avete veduta
la sua ingratitudine e il modo ingiurioso in cui m’ha trattato. Invece
di essermi riconoscente, ha preferito fuggirmi e allontanarsi dal suo
paese. Corsi di
provincia in provincia, e oggi finalmente l’ho incontrato.
— Sire — così il sarto terminò di raccontare
al Sultano di Gasgar la storia del giovine zoppo e del barbiere di
Bagdad — nel modo ch’ebbi l’onore di dire ieri a Vostra Maestà. Quando
il barbiere finì, trovammo che il giovine non aveva avuto torto di
chiamarlo un ciarlone. Nondimeno lo facemmo restare con noi. Ci mettemmo
a tavola, e stemmo a godere fino alla preghiera del tramonto del Sole.
Allora tutta la compagnia si separò, ed io
andai a lavorare nella mia bottega.
— Questo o Sire, — concluse il sarto — è
quanto dovea dire per appagare la Maestà Vostra. A voi spetta di
pronunciare se siamo degni della vostra clemenza, oppure del vostro
sdegno!
Il Sultano di Gasgar lasciò scorgere sopra il
suo viso un’aria allegra la quale ridonò la vita al sarto e a’ suoi
compagni.
— Non posso negare — egli disse — non esser
io maggiormente commosso dall’istoria del giovine zoppo e da quella del
suo barbiere e dei suoi fratelli, anziché dall’istoria del mio buffone:
ma prima di rimandarvi tutti e quattro alle vostre case, e che si
seppellisca il corpo del gobbo, vorrei vedere questo barbiere.
Nello stesso tempo spedì un usciere in
compagnia del sarto, il quale sapeva dove stava di casa. L’usciere ed il
sarto ritornarono conducendo con essi il barbiere, il quale era un
vecchio di 80 anni.
Il Sultano non poté a meno di non ridere
vedendolo.
— Uomo taciturno — gli disse — ho saputo che
voi sapete delle istorie mirabili; vorrei me ne raccontaste qualcheduna.
— Sire — risposegli il barbiere — sospendiamo
per ora, se vi piace, le
istorie: avrei molto piacere di esaminar da vicino questo gobbo. — Egli
vi si avvicinò, si assise in terra, pigliò il capo sopra le sue
ginocchia, e dopo averlo attentamente mirato, proruppe all’improvviso in
uno scoppio tale di risa, e con sì poco contegno da lasciarsi cadere
alla rovescia, senza considerare ritrovarsi egli alla presenza del
Sultano di Gasgar.
Rialzandosi poscia senza cessare di ridere,
esclamò:
— Si dice bene, e con ragione, che non si
muore senza motivo. Se un’istoria giammai ha meritato di essere scritta
in lettere d’oro, dev’esser quella di questo gobbo.
A queste parole ognuno guardò il barbiere
come un buffone.
— Uomo taciturno — soggiunse il Sultano —
ditemi, perché ridete?
— Sire — rispose il barbiere — giuro per il
genio benefico della Maestà vostra, non esser questo gobbo per anco
morto; egli vive. Nel terminar queste parole pigliò una scatoletta, ove
erano molti rimedi e ne cavò una piccola ampolla balsamica, con cui unse
lungamente il collo del gobbo, pigliò poscia dal suo astuccio un ferro
che gli porse fra i denti, e dopo avergli aperta la bocca, gl’immerse
nel palato due piccole molle, colle quali cavò la spina che a tutti fece
vedere.
Il gobbo subito starnutì; distese le braccia
ed i piedi, aprì gli occhi e diede molti altri segni di vita.
Il Sultano, rapito da maraviglia e da
giubilo, ordinò che l’istoria del gobbo fosse unita a quella del
barbiere, affinché la loro memoria giammai non si estinguesse.
Né si contentò di
questo, e perché il sarto, il medico ebreo ed il mercante cristiano non
si ricordassero se non con piacere dell’avvenimento del gobbo, non li
rimandò a casa se non dopo aver loro donato una veste molto ricca.
Quanto al barbiere l’onorò di una pensione e
lo ritenne, fin che visse, alla sua Corte.
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