DALÌ
SURREALISTA INTEGRALE
Salvador
Dalí (Figueras 1904-1989) è universalmente considerato uno dei più grandi
artisti del XX secolo e uno dei più interessanti surrealisti, certamente
il più famoso del gruppo fondato da André Breton, dal quale peraltro si
staccò presto a causa della sue posizioni “eretiche”.
Partendo
dalla sua personale teoria della “paranoia critica” sviluppò nelle sue opere
tematiche di carattere psicoanalitico, con virtuosistici e paradossali accostamenti
di immagini e situazioni che immancabilmente suscitano sorpresa e curiosità
nell’osservatore.
Poeta,
scrittore e uomo di cinema accanto a Buñuel e Hitchcock, oltre che pittore
e scultore, Dalí fu anche un grande comunicatore che, alla pari di Andy
Warhol e anzi precedendolo di qualche decennio, seppe imporre la propria
personalità a livello internazionale grazie all’originalità delle sue teorie
e dei suoi atteggiamenti spregiudicati e anticonvenzionali, ben riassunti
nel famoso manifesto My lucha: “Contro la semplicità, complessità;
contro la uniformità, diversificazione; contro il collettivo, l’individuale;
contro la politica, la metafisica; contro la rivoluzione, la tradizione;
contro la medicina, la magia; contro lo scetticismo, la fede”, ecc.
“Esistono diversi modi di concepire il surrealismo. Lo
si può intendere come movimento organizzato, che prende vita nel 1924 con
la pubblicazione del Manifesto e che si identifica in primo luogo con le
scelte del suo fondatore e teorico André Breton, oppure lo si può intendere
come una visione del mondo, una concezione dell’arte e della vita, che esiste
da sempre e non avrà mai fine. Vi è poi una visione più sfumata che, pur
salvaguardando la dimensione storica del surrealismo, ne rintraccia lo spirito
nelle opere che ha prodotto, valutandone l’attuazione concreta nell’incontro
tra le personalità creatrici e l’urgenza delle nuove istanze che si fanno
strada a partire dai primi anni Venti.
In quest’ottica la produzione di Salvador Dalì non può
non apparire come l’incarnazione più coerente della poetica surrealista.
Paradossalmente, è stata proprio la sua assoluta fedeltà al dettato del
Manifesto ad allontanarlo dai compagni e a provocare la sua estromissione
dal gruppo”; così ci dice Ilaria Ortolina, curatrice, insieme a Laura Ravasi,
della imponente mostra ( e del catalogo edito da Mazzotta) Salvador Dalì
e i surrealisti. L’opera grafica, allestita tra gli stucchi settecenteschi
della ex Chiesa di S. Agostino – Pinacoteca Marco Moretti a Civitanova Marche
Alta, uno degli angoli più suggestivi della provincia di Macerata, a due
passi dalla casa natale di Annibal Caro, il famosissimo traduttore dell’Eneide.
In particolare, va detto che è stata proprio l’incessante
applicazione da parte del geniale artista catalano (Figueras 1904 – 1989)
del “dettato del pensiero, in assenza di ogni controllo esercitato dalla
ragione, al di fuori di qualsiasi preoccupazione estetica o morale” a determinare
la “scomunica” di Breton, e che gli consentirà di considerarsi l’unico “surrealista
integrale”. Certo, il lavoro e la figura artistica di Dalì non si esauriscono
nel surrealismo; ma di questo egli fece una regola di vita, anzi, come sottolinea
ancora l’Ortolina, “di una vita senza regole, se non quelle dettate dal
suo mondo interiore, dalle sue ossessioni e idiosincrasie”. La sua singolare
vicenda, infatti, è connotata da una perfetta identificazione tra vita e
arte e dalla costruzione della propria esistenza come un’opera d’arte.
Promossa dal Comune di Civitanova e dalla Fondazione
Mazzotta con il patrocinio di diversi Enti e il contributo di numerosi sostenitori
privati, la mostra si offre come uno dei principali avvenimenti culturali
dell’estate marchigiana, sia per la ricchezza dell’esposizione (oltre centosessanta
opere grafiche di Dalì e dei suoi più originali compagni di strada, da de
Chirico a Man Ray, da Max Ernst a Matta, da Picasso a Duchamp, per citarne
solo alcuni; si possono ammirare anche alcuni “cadavres exquis”, ovvero
disegni realizzati a più mani in un curioso gioco di associazione di immagini),
sia per l’importanza dell’artista catalano e degli altri surrealisti nella
storia dell’arte del Novecento. L’evento espositivo dà occasione di rivisitare
storicamente e criticamente un personaggio che ha avuto, oltre ad un grande
successo commerciale, una notorietà senza pari presso il grande pubblico
e una costante attenzione da parte dei media, ma che ha suscitato anche
tanta diffidenza da parte della critica più esigente, che solo negli ultimi
anni ha cominciato a mettere da parte non pochi pregiudizi sulla sua figura
(da ultimo, si ricorderà la importante mostra di Palazzo Grassi a Venezia).
Partendo dalla sua personale teoria della “paranoia critica”
sviluppò nelle sue opere tematiche di carattere psicoanalitico, con virtuosistici
e paradossali accostamenti di immagini e situazioni che immancabilmente
suscitano sorpresa e curiosità nell’osservatore. La sua formazione avvenne
principalmente alla Scuola di Belle Arti di Madrid, dove ebbe modo di incontrare
Federico Garcia Lorca e Luis Bunuel. La sua pittura, nei primi anni Venti,
fu contrassegnata via via da suggestioni futuriste, metafisiche e cubiste,
mescolate alla grande ammirazione per Meissonnier, finchè non vide, in riproduzione,
opere di Ernst, Mirò, Breton e Eluard, che lo orientarono verso il surrealismo,
di cui diede tuttavia un’interpretazione estremamente personale, caratterizzata
dalla combinazione della psicoanalisi freudiana con quadri di de Chirico,
Magritte, dello stesso Ernst e di Tanguy; con il risultato di una pittura
illusionistica, fondata su una intensa concentrazione di immagini popolate
da ossessioni. Successivamente, la sua creatività si sarebbe orientata verso
un realismo accademico, via via sempre più virtuosistico, accompagnato da
una sorta di delirio deformante e perfino macabro; per approdare, nel dopoguerra,
ad una produzione sempre più copiosa e libera nell’invenzione, anche nel
campo dell’illustrazione e della grafica, in cui alla perizia tecnica si
associa una straripante fantasia, capace di inventare e intrecciare elementi
realistici e simboli, ricordi d’infanzia e paesaggi catalani con libere
associazioni del “delirio paranoico”.
Poeta, scrittore e uomo di cinema accanto a Buñuel e
Hitchcock (anche quest’aspetto viene ricordato con una rassegna cinematografica),
oltre che pittore e scultore, Dalí fu anche un grande comunicatore che seppe
imporre la propria personalità a livello internazionale grazie all’originalità
delle sue teorie e dei suoi atteggiamenti spregiudicati e anticonvenzionali,
ben riassunti nel famoso manifesto My lucha: “Contro la semplicità, complessità;
contro la uniformità, diversificazione; contro il collettivo, l’individuale;
contro la politica, la metafisica; contro la rivoluzione, la tradizione;
contro la medicina, la magia; contro lo scetticismo, la fede”. Il “caso”
Dalì, nel panorama artistico del secolo appena archiviato, rimane abbastanza
singolare, poiché non è stata soltanto la sua produzione ad aver influito
nell’arte a lui contemporanea, ma anche il modo di gestire il suo “personaggio”,
la capacità di servirsi dei mezzi di comunicazione e di recepire tempestivamente
le trasformazioni culturali del tempo. E qui è spontaneo il “rinvio” alla
vicenda di Andy Warhol (a cui proprio Civitanova dedicò la scorsa estate
una riuscitissima mostra), che seguì di qualche decennio l’esperienza del
grande catalano. Come il protagonista della pop-art, Dalì ha saputo percepire
i meccanismi di una società dominata dall’immagine, dove si confonde sempre
più il confine tra cultura “alta” e cultura “popolare” e l’artista diventa
primo attore in uno spettacolo che si replica quotidianamente.
Fonte: comunicato stampa in occasione della mostra: "Salvador
Dalí e i surrealisti". L'opera grafica" tenutasi a Civitanova Marche Alta
(Macerata) - Ex Chiesa Sant’Agostino – Pinacoteca Marco Moretti dal 26 giugno
al 30 ottobre 2005
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